Forza Italia è bravissima a mettersi nei guai da sola. Basti vedere cos’è successo all’indomani della discreta affermazione di Berlusconi nelle urne: le liti con Meloni sui ministeri (Giustizia in primis), il sabotaggio di La Russa, il partito perennemente conteso tra “falchi” e “colombe”. Il primo gruppetto capeggiato da Licia Ronzulli, divenuta capogruppo al Senato; il secondo da Antonio Tajani, promosso Ministro degli Esteri nonostante il Cav. avesse provato, con quegli audio su Putin, a rovinare tutto. E’ la sindrome della vittoria: gli azzurri, che grazie agli scatti del vecchio Silvio riescono a rimanere competitivi (a dispetto dei sondaggi che predicono catastrofi), l’indomani rischiano sempre o quasi di liquefarsi. E così anche stavolta.

Basti dare un’occhiata alla (decisa) intervista del neo vicepresidente della Camera, Giorgio Mulè, a Repubblica: “Una giusta riflessione l’ha avviata Paolo Zangrillo (neo ministro della Pubblica amministrazione, ndr), ponendosi il problema della compatibilità fra il ruolo di ministro e quello di coordinatore in Piemonte. Credo – ha aggiunto Mulè – che analogo ragionamento non potrà che fare Tajani, che al ruolo di coordinatore nazionale somma quelli di ministro, vicepremier e probabilmente di capodelegazione di FI. E lo stesso vale per la neo-ministra Bernini, che è vicecoordinatrice del partito”.

Per lo stesso motivo Mulé non potrà ambire, forse, al ruolo di coordinatore siciliano di Forza Italia, che sembrava perfettamente alla sua portata in virtù dell’attenta opera di mediazione per avvicinare, negli ultimi mesi, due caratteri molto diversi come Schifani e Miccichè. Ma se FI vuole ripartire e riaffacciarsi sul territorio – solo il Sud, tuttavia, continua a dare soddisfazioni – bisognerà permettere alla nuova classe dirigente di affermarsi. E soprattutto separare le carriere, come si vorrebbe fare coi giudici: niente incarichi di partito a chi ricopre ruoli istituzionali, come nel caso dei due ministri citati dall’ex direttore di Panorama: “È una riflessione che devono fare e risolvere. Ci sono interventi sulla spina dorsale del partito ormai indefettibili. Berlusconi è il primo a saperlo”.

In passato il vecchio Cav. aveva provato ad affidare la sua creatura alla co-gestione di Toti e Carfagna, col risultato che entrambi hanno preso altre strade. Anche l’ipotesi del direttorio s’è rivelata un flop. Mentre a luglio scorso ha incassato l’addio dei tre ministri del governo Draghi (tra cui la stessa Carfagna, oltre a Gelmini e Brunetta), dopo il mancato voto di fiducia che ha causato le dimissioni dell’ex banchiere. Berlusconi non ha più la forza di comandare da solo, ma delegare non è mai stato il suo forte. In Sicilia il Cav. ha sempre scelto di affidarsi a Gianfranco Micciché, che nei primi giorni di frequentazioni in Senato, è stato fra gli ispiratori di una ‘linea dura’ rispetto alla pretesa della Meloni di decidere in solitaria e senza alcun rispetto per l’anziano leader, al punto da arrivare a minacciare un semplice “appoggio esterno” al governo di destra-centro.

Il ruolo della Sicilia, in questa fase storica, è di assoluta importanza. Perché proprio l’Isola negli ultimi mesi ha rappresentato un campo minato, a causa delle forti e talvolta feroci divisioni tra le due anime del partito, culminati nel clamoroso sgambetto ordito ai danni del vicerè berlusconiano da Falcone e soci, musumeciani della prima ora: la votazione del nuovo capogruppo all’Ars, nel tentativo di spodestare l’ultramiccicheiano Calderone con Caputo, e mettere a soqquadro le leadership del partito. Un tentativo disinnescato dai regolamenti parlamentari e dalle visite di Ronzulli, che alla vigilia delle Regionali ha provato a riportare la pace. Ma trattasi di tregua, e nient’altro.

Tanto che già alla vigilia delle elezioni, con la visita di Renato Schifani alla convention sulla sanità di Razza, e gli elogi che ne seguirono, il partito si è ritrovato di fronte ad alcune contraddizioni forse irrisolvibili. Che Miccichè spera di superare rifiutando il seggio al Senato e rimanendo a Palermo come sentinella degli equilibri che il neo governatore, da solo, non riesce a garantire. Il presidente dell’Ars uscente, in queste ore, sta valutando le opzioni migliori per il suo futuro: il sogno di restare sulla poltrona più alta di Sala d’Ercole deve fare i conti con le pretese di Fratelli d’Italia, che non è disposta a concedere sconti; l’idea di avventurarsi alla guida dell’assessorato alla Salute, invece, è osteggiata in primis da Schifani, che vorrebbe affidare quella delega a un tecnico, o a qualcuno di molto competente.

Ma la confusione cresce di ora in ora. E dopo i complimenti di Edy Tamajo al lavoro dell’ex Armao (che ieri ha ricevuto l’ennesima scoppola dalla Corte dei Conti), un’altra questione rischia di rallentare l’iter delle decisioni: vale a dire la retrocessione di Francesco Cascio nella classifica dei non eletti. Il medico, che è già stato presidente dell’Ars, al termine dei conteggi ufficiali è stato scalzato da Pietro Alongi, fedelissimo di Schifani e postulatore della sua sanità. Ciò significa che se Miccichè dovesse propendere per il Senato, a Palermo si spalancherebbe una prateria per i suoi “rivali interni”. Non che Ciccio Cascio sia facilmente addomesticabile: dopo aver rinunciato – per amore della coalizione – a candidarsi a sindaco di Palermo, non è riuscito a ricoprire nemmeno il ruolo di vice-Lagalla, e infine è stato bocciato nelle urne, per le Regionali, nonostante le oltre 6 mila preferenze. Ieri s’è detto “amareggiato” perché “nessuno mi ha garantito. Mi hanno chiesto di tornare in politica, dopo dieci anni di assenza, per la candidatura a sindaco di Palermo. Poi sappiamo come è finita – ha spiegato a Live Sicilia -. Sappiamo che ho favorito la vittoria di Lagalla con il mio ritiro, per il bene di tutti. Non mi pare che ci sia stato il benché minimo segnale di riconoscimento”.

Riconoscimento che, tra eletti e non eletti, sono in tanti ad attendersi: a partire da mr. Preferenze, al secolo Edy Tamajo, forte di quasi 22 mila voti (assessorato o vicepresidenza dell’Ars?); passando per i catanesi Marco Falcone e Nicola D’Agostino, entrambi eletti con enorme gratificazione personale nel Catanese; ma anche Riccardo Gallo, fedelissimo di Dell’Utri, e Margherita La Rocca Ruvolo, ex presidente della commissione Salute, che punta alla sostituzione di Razza nella casella più prestigiosa dell’assessorato di piazza Ziino. Senza dimenticare i grandi esclusi, a partire da Stefania Prestigiacomo e Gabriella Giammanco, che hanno mancato il seggio alle Politiche e adesso sperano in uno strapuntino di sottogoverno a Roma. O Toni Scilla, che nonostante i 5 mila e passa voti non può aspirare a un posto in giunta (magari, una conferma all’Agricoltura) perché Schifani vorrebbe una squadra di “soli eletti”: “Io – sostiene Scilla a Repubblica – penso che i criteri rigidi siano sbagliati. Bisogna salvaguardare l’interesse del partito e dei territori, tanto più se si tiene conto delle competenze”. Forza Italia ogni tanto vince (in Sicilia anche di slancio); ma non si rilassa quasi mai.