I nervi tesi si percepiscono al termine della riunione di mercoledì pomeriggio a palazzo dei Normanni, quando Marco Falcone – rimasto in minoranza – comincia a digitare sulla tastiera del suo telefonino: “Rinnegare il centrodestra, i nostri alleati e il presidente Musumeci significa rinnegare se stessi”, scrive su Facebook. Eppure pochi minuti prima, in una nota congiunta di (quasi) tutti i parlamentari azzurri, emerge la “piena fiducia sia a tutti gli assessori di Forza Italia all’interno della squadra di governo che al presidente Musumeci”. Non si tratta di un semplice malinteso, ma dell’ennesima forzatura, isolata questa volta, che viene rimarcata dall’assessore all’Agricoltura, Toni Scilla: “Evidentemente il mio amico Falcone ha partecipato a un’altra riunione”.
Il documento grazie al quale Miccichè resta commissario regionale – alla vigilia si era detto pronto a farsi da parte, qualora il partito gliel’avesse chiesto – trova l’approvazione di una decina di deputati. Manca all’appello Stefano Pellegrino, che da mesi è in rotta di collisione con il presidente dell’Ars. Fino a due giorni fa l’ha accusato di voler escludere la Lega dalla futura coalizione di centrodestra. Ma era stato proprio lui, Pellegrino, ad aver chiesto (e ottenuto) che il Carroccio rimanesse fuori dalla coalizione a sostegno di Massimo Grillo, alle ultime Amministrative di Marsala. Un esempio spicciolo che dimostra come al vertice di mercoledì i temi dirimenti siano stati confinati tra le ‘varie ed eventuali’. Quello cruciale, su cui nessuno ha proferito parola, è l’ambizione di Falcone e il suo tentativo di scalare il partito (“Si pone un problema di leadership”, aveva spiegato l’assessore poche ore prima del confronto).
Fu Micciché a designarlo commissario a Catania dopo l’addio in massa del sindaco Salvo Pogliese, transitato in Fratelli d’Italia, e della sua squadra. Falcone, che appartiene al blocco degli ex AN, decise così di costituire una corrente, una sorta di opposizione interna, raccogliendo i mal di pancia di Forza Italia, divenendo un “ricettacolo di dissenso” (cit.). E mettendo sulla bilancia il suo lavoro – apprezzato a tutte le latitudini – da assessore alle Infrastrutture per giustificare la necessità di un appoggio incondizionato a Musumeci. Anche l’altro giorno, in un’intervista a ‘La Sicilia’, Falcone ha ribadito che “questo governo sta risollevando la Sicilia. Rivendico il mio ruolo nel partito per rafforzare una coalizione coesa che rivincerà le Regionali”. Nelle stesse ore Micciché ribadiva la necessità di dare un’occhiata del modello Draghi e di “superare le coalizioni”. Lo schianto è stato inevitabile e devastante.
Ma ci sono dei precedenti. Il più importante risale ad alcuni mesi fa, quando nel giorno del compleanno di Riccardo Savona, con Forza Italia riunita per discutere di Bilancio, arrivò da Roma la telefonata di Berlusconi: un uccellino aveva chiesto al Cav. di convincere Micciché a fare un passo indietro e consegnare il partito a un triumvirato di cui avrebbe fatto parte anche Giuseppe Milazzo, con cui “abbiamo ricostruito il gruppo all’Ars, quando altri, compreso Micciché, erano andati via”, dichiarerà Falcone. Non si sa per certo chi sia l’uccellino, ma nei giorni scorsi l’assessore è tornato alla carica per segnalare un altro tentativo di delegittimazione nei suoi confronti, oltre che di Musumeci e Armao. Ai ‘dissidenti’, la cui intenzione – secondo Miccichè – è favorire la scalata dei “falchi” romani (Tajani, Ronzulli, Gasparri e compagnia cantante), non va giù il doppio ruolo del presidente (dell’Ars e di partito), né la tendenza a sparigliare le carte rispetto agli assetti tradizionali del centrodestra. Non ultimo, il presunto flirt con il Pd. Eppure Berlusconi, al netto della telefonata, non ha mai messo in discussione Micciché. “Il partito è blindato. Pensavano di portare via la metà dei deputati, invece si sono ridotti in due”, fanno sapere al termine del summit di mercoledì.
Sgomitare, per il momento, non è servito a Falcone tanto meno ad Armao, l’altro elemento estraneo (da sempre) al gruppo parlamentare. La cui posizione, però, è apparsa più conciliante rispetto al collega. “Mentre un ex fascista va avanti comunque, un ex democristiano si ferma ed evita di straperdere”, è uno dei commenti carpiti a microfoni chiusi nel post-partita. Come Falcone, neanche l’assessore all’Economia ha firmato il documento finale, ma – secondo alcune fonti – non ci sarebbe andato così lontano. E, comunque, avrebbe ridimensionato il suo astio nei confronti di Micciché, nonostante i ripetuti attacchi (pubblici e privati) al suo operato: “Se guardo i dati, non vedo che guadagno abbiamo avuto ad avere Armao assessore, che è arrivato lì gratis, senza cercarsi un voto”, è stato l’ultimo “complimento” sferrato dal presidente dell’Assemblea. La tregua col vicegovernatore proseguirà fino a fine legislatura, quando l’avvocato custode dei conti dovrebbe abbandonare l’Ars e il governo. Non prima, però, di aver tirato la volata a Musumeci, in vista di un secondo mandato che – a prescindere da Forza Italia – resta più incerto che mai.
Armao e Falcone sono una faccia della stessa medaglia. Ma con una profonda differenza alla base. Il primo non si è nemmeno candidato, e ha utilizzato la sponda di un motto (Siciliani Indignati) e di Licia Ronzulli (in cui Berlusconi ripone estrema fiducia) per ottenere la seconda carica più importante. Che poteva essere la prima, secondo Micciché, se lui e Stancanelli non fossero intervenuti spezzando una lancia a favore di Musumeci. L’altro, Falcone, si è candidato e ha conquistato un lauto bottino in termini di preferenze: quasi 12 mila. Il posto in giunta è meritatissimo. Ma come buona parte degli assessori di questa legislatura, anziché rinnovare i buoni rapporti col gruppo parlamentare di riferimento, è stato assorbito a tal punto dall’azione di governo da essere risucchiato nel ‘cono d’ombra’ di Musumeci. Il quale gli ha consegnato una delle tessere esclusive del proprio club, di cui Armao faceva già parte. Tanto che Micciché, in tempi non sospetti, disse che “se fosse per me” gli assessori di Forza Italia “li cambierei tutti”. Con un paio, Bandiera e Grasso, ci è riuscito. Mentre Armao e Falcone sono stati confermati dal Cav. in persona.
I discorsi su Forza Italia, però, esulano da quelli sul governo. Prima di iniziare a parlare di alleanze, di proporre strategie audaci, di “inseguire partiti falliti e manovre incomprensibili”, è necessario confrontarsi ancora. Per non disperdere le percentuali in doppia cifra e il contingente di 700 amministratori locali che in questi mesi hanno reso gli azzurri fondamentali per le dinamiche del centrodestra. Un buon modo per cominciare, come dichiarano i seniores del partito, è evitare “questa assillante ‘caccia’ a orologeria alla poltrona politica di Miccichè”, che alla lunga potrebbe rivelarsi controproducente. Dentro l’Ars, dato che alle urne non si va da un pezzo, il coordinatore regionale mantiene compatto il suo schieramento, e le ultime adesioni – da Luisa Lantieri a Margherita La Rocca Ruvolo – parlano per lui. A Roma la questione è un po’ più delicata e gli ultimi abbandoni – da Minardo a Scoma a Germanà, ma anche la freddezza con Schifani o la Prestigiacomo – sono il segno tangibile di un logorio costante, che ha portato anche altri a prendere le distanze: su tutti l’europarlamentare Milazzo, migrato a Bruxelles dopo un’elezione in pompa magna.
Checché ne dica Micciché (“Non credo di avere alcun casino”), la tensione è palpabile, e la frattura difficile da ricomporre. E se Berlusconi avesse già capito che è tutta una questione di ‘quid’? Qualcuno ce l’ha, a qualcun altro manca. Come nella vita.