I sette peccati del vicerè Schifani

Il presidente della Regione, Renato Schifani e Caterina Chinnici, accolta trionfalmente nel suo partito: Forza Italia

Il mito del presidente “inclusivo”, disposto ad arruolare persino gli ex grillini (come Cancelleri), si è esaurito. Il trend è cambiato e molti di quelli che stavano con Schifani, oggi, sono in fuga. Il caso Lagalla ne è l’esempio più lampante: sfruttando i buoni rapporti con Antonio Tajani, il sindaco di Palermo era sul punto di incrociare la propria traiettoria con quella di Forza Italia. Ma il governatore, che in Sicilia è il vero dominus del partito, non era disposto ad accogliere primedonne e gliel’ha dimostrato in tutti i modi (persino minacciando l’uscita di FI dalla giunta comunale, se non fosse stato rimosso l’assessore presunto renziano). Il risultato è che Lagalla si è federato con Raffaele Lombardo, andando a rafforzare lo schieramento che con Schifani, prima o poi, non vorrà averci nulla a che fare. Ne fanno parte anche altri, a partire da Gianfranco Micciché.

Ma oltre alla cronaca spicciola, è interessante indagare i motivi che hanno fatto cedere, all’improvviso, l’argine. Che hanno trasformato l’attrazione (politica) in repulsione. Non solo di Lagalla. Il primo, senza timore di smentita, è l’appiattimento di Schifani sulle posizioni di Fratelli d’Italia. E, in particolare, su quelle del presidente del Senato, Ignazio La Russa. Il quale, dopo aver incassato un diniego della coalizione sul Musumeci-bis, è divenuto il suo padrino politico: l’ha strappato alle grinfie dell’oblio e l’ha messo a capo di una Regione tostissima da governare. Da quel momento è stata una continua riverenza: sugli assessori calati dall’alto, sul turnover fra Amata e Scarpinato, sui metodi adottati dalla corrente turistica di FdI, persino sulle nomine della sanità (alcune delle quali si sarebbero decise nella villa di Ragalna, dove La Russa trascorre le vacanze). Anche il feeling con Galvagno, allievo della seconda carica dello Stato, è andato fortificandosi dopo un avvio in sordina. Schifani, nonostante l’impedimento che l’ha privato della passerella a Brucoli, resta un quasi patriota. Che ha occhi per tutti, tranne per il suo partito.

Eppure non esiste altra Forza Italia al di fuori di lui. Schifani è il padroncino degli azzurri. E col tempo ha trasformato un partito nel proprio, piccolo regno. Da cui è impossibile riemergere: Tamajo ci ha provato a suon di voti, ed è stato ricacciato negli inferi delle Attività produttive; Falcone s’era messo in vista con la gestione del Bilancio (è stato il primo a chiudere la Finanziaria evitando l’esercizio provvisorio) e s’è ritrovato senza delega alla Programmazione e con un biglietto di sola andata per Bruxelles; Luisa Lantieri protesta per avere il 40% delle donne nelle giunte dei comuni sopra i tremila abitanti e viene convinta dagli addetti stampa a cambiare versione. In generale i deputati di Forza Italia – tredici ormai, a parte Schifani – sono murati vivi. Quando c’era da scegliere il nuovo assessore all’Economia, il presidente si è tuffato a pesce su un avvocato che gli era servito per risolvere il nodo del disavanzo 2021. Quando bisognava rimpiazzare la Volo alla Sanità, ha preferito impuntarsi e rimanere lui al timone. La protesta di pochi coraggiosi, specie nella Capitale, è stata ridimensionata con l’intervento di Tajani a mezzo stampa.

Il Marchese del Grillo (cit.), con Berlusconi in vita, aveva suggerito al Cav. la strategia per tenersi il partito ed evitare la diaspora: nominando nel ruolo di coordinatore regionale  il suo ventriloquo, Marcello Caruso. Un onesto gregario di Italia Viva. Un cavallo di Troia per tendere l’agguato a Micciché, spaccare Forza Italia, raccogliere i “dispersi” (quelli che all’inizio non sapevano dove stare) e relegarli in purgatorio dove ancora soggiornano. E’ la stessa strategia che l’ha visto trasformarsi da governatore in vicerè, con la facoltà di distribuire incarichi di sottogoverno persino ai riccastri che gli organizzano le feste e lo invitano a cena. Per lo stesso principio di cui sopra, godono di “privilegi” che a quelli del suo partito sono negati.

Il terzo peccato di Schifani, per cui tutti fuggono da lui, è aver reclutato nel suo governo tutti gli oppositori della prima ora: a partire da Caterina Chinnici e Gaetano Armao, che con lui si erano scontrati alle ultime Regionali per la conquista di Palazzo d’Orleans. Le acrobazie di Armao gli sono valse due incarichi di prestigio: quello di consulente per i fondi extraregionale a 60 mila euro l’anno e quello di presidente della Cts, la Commissione tecnico specialistica che si occupa di rilasciare le autorizzazioni ambientali. Con tanti saluti a Calenda. La Chinnici, in maniera più discreta, ha abbandonato la zattera del Pd e beneficiato del voto dei forzisti per accaparrarsi la terza elezione in Europa e una pensione di ventuno mila euro al mese (frutto – anche – della rinuncia di Tamajo). Poi è sparita di nuovo.

Anche l’opposizione è finita nella sua rete. E non ha saputo più opporsi. Mentre i grillini sollecitano più poltrone per più sederi (nelle giunte comunali), Cateno De Luca ha fatto outing, dicendosi pronto a instaurare un dialogo anche coi partiti del centrodestra, purché si rinnovino. Ma è implicito che pur rinnovandosi saranno sempre “figli” di Schifani e del suo governo. Nel corso della legislatura, specie durante le sessioni finanziarie, è accaduto che i partiti di minoranza cedessero a facili inciuci sulle mance e la smettessero di pungere il governo su questioni di maggiore rilevanza (che fine ha fatto il dibattito su SeeSicily?). Al netto delle schermaglie che ogni dibattito reclama – vedi la siccità, l’autonomia differenziata, la sanità – l’opposizione ha fatto acqua. Ne sono prova le attuali spaccature, in cui i segretari regionali dei partiti, non perdono occasione per autoproclamarsi leader. Del nulla.

Pure sulla questione morale il presidente si è incartato. Aveva avuto un guizzo sulla vicenda Cannes, ritirando in autotutela un atto scellerato degli allievi del Balilla, riguardo l’affidamento diretto di uno shooting fotografico milionario a una società lussemburghese priva di requisiti (anche il Tar gli ha dato ragione). Poi ha perso la bussola, finendo per conferire incarichi su incarichi a un opaco avvocato d’affari che ha imbastito una campagna d’odio contro il giudice che lo aveva condannato a versare 621 mila euro di tasse non pagate all’Agenzia delle Entrate. E non ha impedito che personaggi sui generis – per non dire truffaldi – permeassero assessorati e società partecipate con campagne di comunicazione sensazionalistiche, allo scopo di scucire soldi pubblici. L’elenco è lungo e rischia di dilatarsi ogni giorno.

Ma fra i peccatucci di Schifani c’è anche quello di non aver proposto né fatto approvare una sola riforma da quando è presidente della Regione. Il nulla cosmico. L’unico tema che non passa mai di moda è la moltiplicazione delle poltrone, attraverso strampalati disegni di legge sul riordino degli enti locali. Che, come nel caso delle ex province, finiscono falcidiati dai franchi tiratori. E c’è infine – settimo peccato capitale – l’evanescenza sulle emergenze: che riguardino rifiuti, acqua o incendi non importa. La Regione è sempre un passo indietro. Ma lo scaricabarile non funziona più. Chi l’ha capito – vedi i Lombardo e i Lagalla – ha già voltato pagina. Persino Cuffaro, il più devoto degli alleati, ha sollecitato la rivisitazione delle deleghe affinché sia riconosciuto alla DC ciò che la DC merita. Gli altri, pur di non finire vittime dei suoi rancori, continueranno a temporeggiare. Lunga vita al Re.

Alberto Paternò :

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