Ci sta che Davide Faraone provi a tirare acqua al proprio mulino (è intento dichiarato di Renzi, dalla morte del Cav., lanciare un’opa su ciò che resta di Forza Italia), ma le parole pronunciate l’altra sera all’assemblea regionale di Italia Viva – né rettificate né smentite da alcuno – dimostrano che il neo capogruppo alla Camera ha colto nel segno. Sì, guardando in casa d’altri. Faraone ha detto che “oggi in Forza Italia non comanda nemmeno Schifani, comanda Falcone che a Taormina ha lanciato la sua candidatura alle Europee”. E ha aggiunto (questa è la parte del tornaconto politico): “La conseguente nomina di Gasparri a capogruppo al Senato, dimostra chi comanda in Forza Italia in Sicilia e come ormai il partito sia diventato una costola di Fratelli d’Italia ed è eterodiretto dalla Meloni”.
Maurizio Gasparri e Antonio Tajani sono stati indubbiamente i protagonisti del meeting di Taormina, un paio di settimane fa. Entrambi per la stessa ragione: aver ribadito la centralità del progetto forzista, “puntiamo al 20 per cento”, tenendo alla larga chi vorrebbe approfittare del partito come fosse un autobus. “Caro Cuffaro, non ti vogliamo”. L’ex presidente della Regione, che già pregustava l’ingresso a Bruxelles dal portone principale – è chiaro che il listone con FI avrebbe portato almeno un seggio a Totò – è stato vittima di una squallida esclusione. Squallida nel senso che hanno puntato Cuffaro rivendicando una ‘questione morale’ che non appartiene a Forza Italia, il partito di Dell’Utri; schierando sul predellino autorevoli esponenti dell’Antimafia – da Caterina Chinnici a Rita Dalla Chiesa – per chiudere le porte a un riabilitato dalla giustizia che ha già pagato il conto dei propri errori; deturpando il dibattito interno, assai agitato, con una questione che non ha nulla a che vedere con Forza Italia. Cuffaro non è di Forza Italia. Avrebbero potuto trovare un altro modo per scaricarlo, non quello di appellarsi ai “voti inquinati” o all’incompatibilità di valori.
Insomma, Cuffaro è diventato un pretesto, diciamo pure “strumentale”, per una resa di conti fra l’ala dei catanesi (ma non solo) che fa capo a Marco Falcone, spalleggiato da Tajani e Gasparri, e quella di Renato Schifani, che fino all’altro ieri, in un’intervista a Rai News, insisteva col partito aperto e plurale per “fare in modo che il sogno di Berlusconi di aggregare forze moderate sotto al simbolo di Forza Italia si avveri”. Silvio non c’è più, non potrà né confermare né smentire le tesi di Schifani. Sicuramente non avrebbe tradito un vecchio alleato, fidatissimo per altro, caldeggiando la pista Chinnici. Hanno dato all’ex europarlamentare del Pd lo stesso diritto di tribuna che ebbe un anno e mezzo fa, quando la sua anonima candidatura a presidente della Regione comportò l’esclusione di Giuseppe Lupo dalla competizione elettorale. Era imputato in un processo.
Alla fine, tralasciando l’episodio Cuffaro, è chiaro che in Forza Italia esistono due anime che oggi appaiono sempre più distanti. Falcone e Schifani non si prendono da molti mesi, da quando, cioè, l’assessore venne ridimensionato e privato della delega alla Programmazione dopo aver gestito la Finanziaria coinvolgendo le opposizioni. Il governatore gli ha fatto terra bruciata intorno, ma Falcone – che in giunta ha votato contro la nuova ridefinizione delle Camere di Commercio (specie quella del Sud-Est, che entra negli schemi di potere della Sac di Catania) – ha resistito grazie al lavoro quotidiano e all’ala governista che da Roma gli ha sempre fatto coraggio. Che Tajani e Schifani abbiano due linee e due impostazioni diverse è notorio da parecchio tempo, da quando il Cav. era ancora in vita. Tant’è che il Ministro degli Esteri, replicando alle critiche di Schifani (che chiedeva spazio nel partito per gli amministratori del Sud che “hanno i voti”), ha spiegato che in Forza Italia “c’è spazio per chi lavora”. Qualcuno, magari, lo avrà imbeccato, spiegandogli che il capo del governo siciliano fa acqua da tutte le parti: zero riforme e solo parole al vento.
Sembra quasi che l’ala facente capo a Falcone abbia scelto di opporsi all’inconcludenza, ai rancori e al narcisismo di un presidente che ama specchiarsi e basta; che inaugura cantieri autostradali finiti da mesi e mai aperti (succederà mercoledì prossimo a Modica); che strombazza sul caro-voli ma non ottiene risposte dall’Antitrust. Le critiche sul lavoro, però, gli sarebbero costate il posto. Appellarsi a Cuffaro, invece, gli ha permesso di scalare posizioni. Buon per lui. Ma adesso, restando alla questione morale, cosa accadrebbe se l’assessore all’Economia aprisse gli occhi e decidesse di puntare anche Armao, suo predecessore in via Notarbartolo e attuale antagonista? E’ Armao ad averlo “commissariato” sulla gestione dei fondi extraregionali dopo l’impugnativa della scorsa Finanziaria (per 800 milioni); è lui ad aver imbastito relazioni ai piani alti per occuparsi non solo di fondi ma anche di “questioni” romane; è lui ad aver messo le mani sulla Cts per il rilascio dei pareri ambientali. E’ lui l’inquilino fidato di Palazzo d’Orleans, il vicepresidente occulto: lo stesso Armao che per cinque anni di fila ha condotto la Regione in esercizio provvisorio, che non ha fatto passi avanti sull’indebitamento e persino sul consolidamento dei carrozzoni, che ha aperto un contenzioso rischiosissimo con la Corte dei Conti che ancora pende, con le parvenze di una ghigliottina, sui conti pubblici siciliani.
Ecco: cos’accadrebbe se la Consulta dovesse dare ragione alla Procura della Corte dei Conti e decidere che il disavanzo da oltre un miliardo andava spalmato in tre anni anziché in dieci? Se quella sentenza attesa a breve, dovesse ri-allargare la voragine della Sicilia provocata da Armao? E’ uno scenario quasi apocalittico che nessuno si augura e al quale Schifani stesso non vuole credere (la Corte Costituzionale potrebbe dichiarare “cessata” la materia del contendere, in virtù della legge riparatrice votata lo scorso anno dal parlamento nazionale). Ma semmai qualcosa dovesse andare storto, il nome del “colpevole” è già scolpito sulla pietra. E a quel punto scatterebbe la spallata finale. Dice bene Faraone: l’imperatore non ha più un impero.