L’affanno di Matteo Renzi e Renato Schifani nel difendere Totò Cuffaro, farebbe credere a un approccio garantista che nessuno dei due – purtroppo – ha dimostrato quand’era il momento. Cioè con le liste ancora aperte e l’ex governatore intenzionato a chiudere l’accordo: prima con Forza Italia e poi con Italia Viva. Entrambi si sono arresi ai pruriti giustizialisti della Chinnici e della Bonino di turno, coprendo di omertoso silenzio la rinuncia al sostegno da parte della DC, che coi suoi 150 mila voti avrebbe fatto molto comodo. Non è soltanto una questione di numeri, ma di etica. Quella che Cuffaro, a differenza di amici e nemici professati, ha mostrato di possedere con le sue ultime dichiarazioni: “Pur in assenza del nostro simbolo e dei nostri candidati, rimarrà fermo e convinto l’impegno dell’intera comunità politica della Democrazia Cristiana nel sostenere unitariamente i tentativi che all’interno del centrodestra stanno puntando sull’edificazione dell’esperienza politica e del partito popolare Europeo, sulle ragioni fondanti della sua identità e del suo patrimonio di valori”.
Non si espone per nessuno dei candidati, Cuffaro. Ha capito che i suoi voti, pubblicamente, puzzano, e finirebbero per danneggiare chiunque dei ‘papabili’. Si limita – lealmente – a dare continuità all’esperienza di governo che, alla Regione, lo vede schierato al fianco del centrodestra. Nella stessa giunta di Renato Schifani, cioè di Forza Italia, il partito che per primo ha scelto in maniera deliberata di applicare sulla sua testa la tagliola della “questione morale”. Soprattutto per andare incontro ai desiderata di Caterina Chinnici. Passata sotto le insegne berlusconiane da circa un anno, l’ex Pd non era affatto desiderosa di mischiare la propria storia e la memoria del padre, con quella – da carcerato – di Totò Cuffaro, che ha scontato cinque anni in maniera dignitosa, a Rebibbia, dopo la condanna per favoreggiamento. Ma non era l’unico scoglio: perché la presenza in lista di un uomo o di una donna della DC, coi voti cuffariani alle spalle, le avrebbe precluso la possibilità di accedere al seggio europeo (che invece potrebbe garantirsi, dato l’impegno dei vari Falcone e Tamajo nel governo della Regione). Da qui una forma di ostracismo strumentale.
Schifani ha assistito muto all’intera scena e, all’indomani della kermesse di Taormina che aveva sancito la linea dura del partito (era ottobre dell’anno scorso), non ha mostrato forzature in senso garantista. Il che gli avrebbe fatto onore. Piuttosto, si è adeguato alla linea Chinnici, evitando di andare in contrasto con Tajani, che nel frattempo l’aveva ricompensato con la carica di presidente del Consiglio nazionale di Forza Italia. Se c’era un momento per fare la differenza, per rivelare al mondo che il Cav. avrebbe aborrito una posizione del genere, era proprio il divieto d’accesso nei confronti di Cuffaro. Troppo facile venire allo scoperto adesso e dichiarare, come ha fatto ieri il presidente della Regione, che Totò “in queste settimane è stato oggetto di attacchi che secondo me sono andati oltre, è stata quasi messa alla gogna una intera forza politica pienamente legittima, fatta da migliaia di elettori, da una classe dirigente che conosco e apprezzo e da assessori eccellenti in giunta”.
Ma il primo partito a ridurre in brandelli lo stato di diritto è stato proprio il suo: Forza Italia. Stupirsi perché Renzi e il sindaco di Palermo Lagalla si accorgono solo adesso delle cattiverie nei confronti dell’ex governatore (“Se certe affermazioni fossero state pronunciate prima della chiusura delle liste sarei stato più contento, averle fatte dopo lascia un senso di amarezza”, ha detto ieri Schifani), è un’ipocrisia che si aggiunge alle altre, e che non rende un buon servizio alla verità e all’etica. Perché Schifani non cita mai la Chinnici, ma si limita semplicemente a non partecipare alla presentazione della lista di FI, delegando l’onere a Marcello Caruso? Perché non spende una parola nei confronti di Tajani, l’artefice della lista siciliana e della futura delegazione a Strasburgo?
Poi c’è Renzi. Anche lui alle prese con una forma – almeno nel merito – di reminiscenza “garantista”. Anche se il buon Matteo è stato il primo a cedere ai diktat di +Europa, che ha posto un veto grosso quanto una casa all’accordo con Cuffaro. E non solo per merito di Federico Pizzarotti, l’ex sindaco grillino di Parma, che provava a fare convergere le strade di Bonino con quelle di Calenda. Ma anche del gruppo dirigente di +Europa, che ha rifiutato il simbolo della DC nel listone degli ‘Stati Uniti d’Europa’, ponendo una chiara pregiudiziale non soltanto nei confronti di Cuffaro ma dei congiunti che – sommessamente – avevano offerto la propria disponibilità alla candidatura (o al sacrificio).
Renzi, piuttosto che far valere le sue ragioni, si è inchinato alla ragion di Stato, anche se oggi si indigna (solo per dare addosso a Calenda?): “Ora che questa vicenda è finita – ammicca l’ex premier a ‘La Sicilia’ – posso dire che questo modo di aggredire le persone è profondamente ingiusto e giustizialista? La Dc non sosterrà i nostri candidati. Proprio perché Cuffaro non è mio alleato mi sento di difendere il principio per cui i diritti costituzionali non possono essere sospesi per editto mediatico. Ha sbagliato, ha pagato duramente con anni di carcere, oggi è un cittadino libero. Chi ha aggredito Stati Uniti d’Europa utilizzando questa storia non solo ha fatto una cosa che non c’entrava niente, ma ha dimostrato di essere un giustizialista e non un liberale”.
Troppo facile dirlo adesso. Lavarsi la coscienza non riporterà in campo le candidature di Zambuto (compagno della figlia di Cuffaro) o di Laura Abbadessa, consigliera dell’assessore dc Nuccia Albano. Candidature, peraltro, offerte agli Stati Uniti d’Europa da Davide Faraone. Servirà solo ad aumentare la distanza fra la moralità e il moralismo, tra verità e menzogna. Mentre Cuffaro parlava di un dialogo serrato con Italia Viva, Italia Viva era lì a smentirlo, per evitare di essere risucchiato nel tritacarne della gogna. Che invece ha finito per coinvolgere solo Cuffaro.
Altri, ovviamente, si sono defilati più e peggio di Renzi. Spesso senza fornire un alibi: come nel caso della Lega di Salvini, rappresentata in Sicilia dal commissario Claudio Durigon, che ha escluso ogni principio d’accordo con la DC mentre s’ipotizzava un asse fra Sammartino e Cuffaro; per non parlare di Carlo Calenda, che nella sua deriva forcaiola e manettara, almeno ha avuto il pregio della coerenza. Che però non rimedia alla violenza del dibattito “cuffarocentrico”, semmai lo amplifica: testimoniando il senso di decadenza delle istituzioni, sempre meno inclini al rispetto della Costituzione.