Totò Cuffaro ha detto (a ‘La Sicilia’) che Renato Schifani non si farà logorare dal nuovo asse fra Micciché e Lombardo. In realtà, il governatore è già logoro: tanto che all’ultimo passaggio in Assemblea regionale, quando si è ridiscussa la riforma delle province, il suo governo – come nel febbraio scorso e come per la proposta di legge “anti ineleggibili” – è stato battuto col voto segreto. Segno che qualche franco tiratore, magari nascosto negli anfratti più segreti della tanto bistrattata Forza Italia, è entrato in azione. Ma Schifani è logoro anche per aver lasciato dietro di sé alcune dichiarazioni che, alla prova dei fatti, sono state pienamente sconfessate. E non si tratta di decisioni di carattere amministrativo, come l’utilizzo di una nave della Marina militare per approvvigionare d’acqua la provincia di Agrigento (costava troppo e l’esperimento è stato immediatamente sospeso). Bensì di passaggi di carattere politico, che avrebbero potuto qualificare il suo operato e invece si sono incagliati nella rete delle occasioni perse.

Il primo, supremo convincimento di Schifani, annunciato ai siciliani dopo l’elezione, è che la sua giunta dovesse essere composta da assessori “eletti”. Cioè deputati che avessero ottenuto il seggio all’Ars grazie al consenso ottenuto nelle urne. Il “listino” era già pieno di miracolati (come la compagna del segretario dell’Udc, Decio Terrana, divenuta segretaria d’aula in forza di 25 voti di preferenza), e non ne servivano degli altri. Ma il banco è saltato quasi subito, di fronte alla resistenza minacciosa degli amici di Fratelli d’Italia. Che anziché assegnare un posto in giunta ai meritevoli Giorgio Assenza e Giusi Savarino, hanno calato dall’alto i nomi di Francesco Scarpinato (già consigliere comunale a Palermo) ed Elena Pagana (ex grillina), entrambi bocciati nelle urne.

Il primo, trasformato in assessore al Turismo (prima) e ai Beni culturali (poi), continua il suo percorso in giunta grazie ai buoni uffici presso la corrente turistica del Balilla, che l’ha tutelato nei momenti di massimo scontro con Schifani (è accaduto più volte: prima per Cannes, poi per aver deciso assieme a De Luca la quota di compartecipazione da assegnare al Comune di Taormina per l’utilizzo del Teatro Antico, e dopo ancora per l’aumento del ticket nei siti archeologici e parchi della Regione); l’altra, la Pagana, 1.500 voti nel collegio di Enna, si è appena dimessa dall’incarico al Territorio e Ambiente, ma solo dopo che il marito, l’ex assessore alla Salute Ruggero Razza, ha staccato il pass per il parlamento europeo (Schifani le ha sfilato sotto il naso anche la presidenza della Cts, assegnandola al fedele Armao, e l’ha sconfessata per la gestione confusionaria della discarica di Lentini). Così la Savarino ha potuto riprendersi ciò che le spettava sul campo.

“La giunta sarà composta da assessori politici-esperti, non accetterò assessori tuttologi. Dobbiamo partire subito, con assessori che sappiano cosa fare”, aveva detto lo stesso governatore all’indomani del successo di settembre 2022. Ma la prima decisione, presa a freddo, fu la consegna dell’assessorato alla Sanità a Giovanna Volo, che non aveva mai avuto a che fare con un’aula parlamentare e che per il primo anno abbondante non è stata capace neppure di rispondere alle interrogazioni dei deputati di opposizione. L’assessore, un tecnico strappato alla pensione, ex direttore sanitario di alcune aziende, ha superato il tagliando del primo anno e mezzo nonostante i frequenti balbettii: al suo posto non arriverà mai nessuno. Neppure Edy Tamajo, che Schifani continua a controllare a vista (si è recato a Mondello, il regno di Mister Preferenze, per seguire insieme a lui la festa dell’Assunta).

Ma il presidente ha continuato a contraddirsi col suo stesso partito, Forza Italia, quando ha scelto di sostituire Marco Falcone – uno degli assessori “eletti” – con un altro tecnico e vassallo di fiducia: quell’Alessandro Dagnino che gli ha permesso di superare le difficoltà di un (altro) contenzioso con la Corte dei Conti sulla parifica del rendiconto 2021. Ossia il curatore fallimentare dei disastri procurati da Armao (oggi consulente a peso d’oro di Palazzo d’Orleans: anche questa è una contraddizione in termini di cui si è lungamente disquisito). Dagnino ha preso il posto in giunta di un forzista, pur non essendo un deputato eletto né un uomo di partito. E’ stato preferito ai dieci deputati dell’Ars, che continuano a bramare un segno di riconoscenza politica da parte dell’imperatore (l’ha avuto solo Tamajo, quando è stato indicato alle Attività produttive, poi si è fermato il mondo).

Se le regole d’ingaggio ribadite per resistere al pressing di Lombardo – “Ho sempre sostenuto che la composizione della giunta avrebbe risposto al risultato elettorale delle elezioni regionali”, ha detto Schifani – valessero sempre e per tutti, Forza Italia adesso si ritroverebbe con tre assessori (tutti eletti) e non soltanto con Tamajo. Fra l’altro depotenziato. Le regole, però, valgono a corrente alternata. E i mal di pancia continuano a crescere. Peccato che nessuno, a parte la sindaca di Montevago, Margherita La Rocca Ruvolo, li affronti apertamente. I parlamentari azzurri preferiscono non venire allo scoperto, e colpire quando è già noto che lo faranno: all’Ars. Col voto segreto. Non metterci la faccia, però, è l’unico espediente per rintuzzare la furia del presidente.

Guardate cos’è capitato a Luisa Lantieri, rea di aver espresso un parere a favore del reddito di cittadinanza e contrario all’autonomia differenziata… Emarginata e redarguita. Anche lei iscritta, di diritto, al partito dei reprobi. Dei traditori di Micciché traditi, a loro volta, da Schifani. Che si comporta come le seppie: di fronte a un nemico o se si sente attaccato, ha un’arma di difesa formidabile: spara il nero. Per confondere le acque.