C’è sempre qualcosa di vero, ma è una verità che sempre si estende, si allarga, si fa millanteria incontrollata, insomma una patacca pregna di patacche, una balla spaziale. E la storia di Giuseppe Conte, il presidente del Consiglio indicato da Di Maio che dichiara di aver studiato in università prestigiose dove non risulta si sia mai nemmeno iscritto, rivela forse il tratto comune della classe dirigente grillina. Un mondo che nega la competenza, ma pure la cerca al punto di taroccarla. Anche Rocco Casalino d’altra parte era stato in America, ma non per un master in Economia, come aveva scritto nel suo curriculum, “ma per un corso d’inglese dopo il liceo”, come alla fine ammise a telefono parlando con Luciano Capone del Foglio. Anche Alessia D’Alessandro , la candidata super competente che Di Maio spacciò per “economista che ha lavorato nello staff di Angela Merkel”, in effetti aveva fatto uno stage universitario in una fondazione vicina alla Cdu e sul serio leggeva il settimanale Economist (dunque era un po’ economista). Così come Andrea Mazzillo, l’ex assessore al Bilancio nella Roma di Virginia Raggi, diceva di essere “commercialista” e “professore”, niente meno, perché in effetti sapeva fare le addizioni malgrado non fosse iscritto all’ordine dei commercialisti e pur non avendo nessuna cattedra da professore aveva in effetti ricevuto a Cassino una docenza a contratto per complessive ventotto ore (926 euro e 80 centesimi di retribuzione). Persino Emanuela Del Re, designata dal M5s come ministro degli Esteri durante la campagna elettorale, aveva frequentato l’Istituto universitario europeo di Fiesole, solo che non aveva mai conseguito quel dottorato di ricerca che brillava nel suo curriculum.
E insomma di tutto questo si potrebbe anche soltanto ridere, se non fosse che Giuseppe Conte, con la schiera degli altri presunti competenti, è l’ideale Mensch dei Cinque stelle, il prototipo appunto di una classe dirigente inventata e sottoposta agli umori ciclotimici del Movimento, che nega la competenza e pure la cerca al punto da inventarla dove non c’è. Diceva Beppe Grillo, manifestando la sua ossessione contro il principio della delega, cioè contro quell’idea piuttosto normale secondo la quale si affidano a dei professionisti le mansioni che il cittadino non è ovviamente in grado di svolgere da solo: “Io come ministro delle Finanze voglio una signora che ha tirato su tre figli, una signora che non ha fatto fallire la sua famiglia. Queste persone sanno cos’è l’economia, non i bocconiani”. Poi però sono arrivate le ambizioni di governo. E’ arrivato Luigi Di Maio, l’ex steward dello stadio San Paolo di Napoli che a gennaio, sul palco del tempio di Adriano, a Roma, chiama uno a uno i quaranta candidati al Parlamento che lui ha personalmente scelto per l’uninominale. E gongola vistosamente, Di Maio, sopraffatto da una perenne limatura di sorriso, ogni volta che può annunciare al pubblico un “professore universitario”, un “ricercatore del Cnr”, un “ammiraglio”, un “generale di brigata”, un “comandante”, un “inviato dell’Osce”, un “architetto consulente di Renzo Piano”… che evidentemente per lui sono un po’ come la grisaglia che indossa anche a pranzo con la famiglia, la cravatta domenicale della provincia profonda, il complesso d’inferiorità e il malessere del diplomato fuoricorso che deve misurarsi con la macchina dello stato, con le relazioni internazionali, con i mercati e con gli investitori. “Provate adesso a chiamarci incompetenti”, disse quel giorno Di Maio, manifestando il desiderio di essere normale.
Una normalità talmente inseguita, cercata, da essersi quasi trasformata anche questa in un’ossessione che genera gaffe, taroccamenti della realtà, mezze bugie, vere e gigantesche patacche che ora s’incarnano nella figura del presunto esperto, e dunque prendono forma con i curricula abbelliti, con i dottorati di ricerca fasulli, con gli altisonanti (e inesistenti) studi universitari, un impasto imprendibile di vero e di falso. Persino Di Maio, che pure il curriculum non ce l’ha, abbellisce come può la sua biografia. E infatti quando racconta di aver fatto lo steward allo stadio aggiunge, forse con disperazione, “ma in tribuna autorità”. Ed è così che anche il professor Giuseppe Conte, una persona piuttosto qualunque che si vorrebbe proiettare sul palcoscenico girevole della presidenza del Consiglio, non ha conseguito titoli di studio né a New York né a Pittsburgh né a Cambridge, ma pure, come Casalino e Mazzillo, come Del Re e D’Alessandro, come lo stesso Di Maio, anche lui ha abbellito la sua biografia (raccontandosi persino “fondatore” di uno studio legale con il noto avvocato Guido Alpa, come ha scritto il Foglio), perché in quelle prestigiose università c’è in effetti passato, anche se non da studente, come in effetti ha collaborato con l’avvocato Alpa (che lo stima ma non ricorda di aver mai avuto un socio fondatore di nome Conte). E insomma anche lui, anche quest’uomo del destino, versione grillina di Mario Monti, come gli altri, vive una vita “come se”, la competenza per ora certificata solo dal pressappoco, da un gigantesco all’incirca, il marchio di una classe dirigente a cinque stelle che non riesce a nascere: all’incirca laureati, all’incirca professori, all’incirca dottori di ricerca, all’incirca grandi avvocati, all’incirca normali.
Ieri pomeriggio, mettendo a frutto i suoi blasonati diplomi, facendo evidentemente pervenire delle precisazioni all’Adnkronos, il professor Conte si è applicato nel distinguere tra gli studi alla New York University e le passeggiate nelle biblioteche universitarie di New York. Risulta dunque uno scambio epistolare tra lui e un tale Radu Popa, forse un tecnico dei computer. Scrive l’Adnkronos, senza alcun intento ironico, che “nello scambio dal tono confidenziale e dal quale si evince che i due si conoscono da tempo, Conte spiega a Radu Popa che ha bisogno di accedere alla biblioteca e di una postazione per ultimare un nuovo libro. Richiesta subito accordata”. E se lo dice Radu Popa…
L’abbondanza di dottrina è una rara magnificenza, se la si sa applicare e se corrisponde a verità. Adesso Di Maio e Salvini insistono. “Su Conte si va avanti”, promettono, forse ignorando che il prof. è laureato con una tesi intitolata “l’inadempimento prima del termine”. E viene proprio da pensare che l’aver scelto Conte abbia un valore esemplare perché offre una norma, offre la dottrina del presunto competente chiamato a salvare la patria. Comica e micidiale figura, che inaugura la Terza Repubblica con una promettente patacca.
(Salvatore Merlo scrive per “Il Foglio”)