Il problema è sociale e politico. Insieme. Cosa ha fruttato, da due anni a questa parte, il reddito di cittadinanza? La misura inventata e voluta fortemente dai Cinque Stelle, secondo molti osservatori (tra cui il governatore della Campania, Vincenzo De Luca) è un forte disincentivo a lavorare, tant’è che ristoranti e attività ricettive, in questa fase di ‘ripartenza’, faticano a trovare dipendenti stagionali (molti preferiscono rimanere sul divano, con l’assegno da 700 euro in tasca e un lavoretto in nero fuori); secondo altri, però, il sussidio ha avuto un effetto salvifico per molte famiglie, specie in periodo di pandemia. In Italia, dove lo percepiscono 2.8 milioni di persone, si sono persi 900 mila posti di lavoro e, non appena verranno sbloccati i licenziamenti, altri se ne aggiungeranno (in Sicilia, secondo la Cgil, sono 57 mila quelli a rischio). Il problema di fondo è aver innescato un ‘cortocircuito logico’ attorno a quella che nasce come una misura di politiche attive del lavoro, e invece si sta dimostrando – nell’emergenza è persino più evidente – un mero strumento assistenzialista.
Anche Luigi Di Maio, non troppo tempo fa, in questo continuo percorso di reminiscenza che oggi ha toccato il tema della giustizia manettara, aveva ammesso che qualcosa non è andato per il verso giusto, invocando un “tagliando”. Per aver capito, forse troppo tardi, che il reddito di cittadinanza può essere strumento di lotta alla povertà assoluta (quella che lo stesso Di Maio pensava di aver abolito sui balconi); ma, in mancanza di una riforma complessiva delle politiche attive del lavoro e, perché no, dei Centri per l’Impiego, non poteva rappresentare nient’altro che un sussidio. Questo equivoco di fondo ha alimentato una serie di imbrogli e di ruberie, e decretato il fallimento del sistema Paese. Sul piano sociale, come detto, ma anche politico.
La sovrastruttura del reddito di cittadinanza ha fallito: lo dimostra un’inchiesta di ‘Non è l’Arena’, domenica scorsa, a Palermo. Un navigator, intercettato dal cronista, spiega che dal 9 marzo non convoca più nessun beneficiario del reddito per la sua profilazione; in parallelo, le saracinesche di un Centro per l’Impiego rimangono abbassate, così un percettore, dopo 18 mesi di assistenzialismo nudo e crudo, non riesce a trovare interlocutori. Al telefono gli rispondono che “lavoro non ce n’è, è impossibile” e che nei Cpi “facciamo solo certificati”. Deve accontentarsi dell’aiutino di Stato. Molti lo fanno in realtà. Ma se a qualcuno andasse di lavorare? Di trovare spazio in questo mercato saturo, per rilanciare le proprie ambizioni di vita? E’ lì che cominciano i problemi.
Perché, se è vero che la pandemia ha azzerato gli spazi di manovra, anche in epoca pre Covid le cose non sono andate benissimo. E il risultato dei navigator, coloro che hanno affiancato il personale dei Centri per l’Impiego con il compito specifico di fare da cerniera fra percettori del reddito e il mondo del lavoro, si sono trovati spiazzati: senza gli strumenti adeguati e, soprattutto, con una prospettiva a breve termine che ha costretto loro, gli stessi navigator, ad armarsi di titoli e pazienza per cercarsi una nuova occupazione. Tanto che dei 2.978 assunti dall’Anpal dopo il concorso dell’estate 2019 (429 in Sicilia), in 300 si sono dimessi. Una chiara anomalia del sistema Italia.
Gli altri, che si sono visti prorogare il contratto di collaborazione fino al dicembre 2021 (a 1.700 euro al mese), aspettano i concorsi regionali per rimanere nei Centri per l’Impiego, magari con una prospettiva più solida e duratura. La Sicilia è una delle poche Regioni ad aver avviato la macchina burocratica per la pubblicazione di un bando, che dovrebbe avvenire a giorni: verranno messi in palio 1.024 posti e, grazie ai titoli acquisiti sul campo, i navigator potrebbero recitare la parte del leone. L’assunzione di una parte di essi, però, non cancellerà le disgrazie degli ultimi due anni. Prima di introdurre una figura innovativa e discussa come quella dei tutor, si sarebbe dovuto intervenire alle fondamenta. Riformando i cosiddetti Centri per l’Impiego, dove le tecnologie – per dire – sono quelle degli anni Novanta. Dove Anpal, l’agenzia del lavoro delle Politiche attive voluta da Matteo Renzi, non è riuscita – da sola – a regolare i rapporti con le Regioni, da cui dipendono direttamente gli ex uffici di collocamento. Colpa, soprattutto, di una governance malandata come quella di Mimmo Parisi, che di recente è stato liquidato dal governo Draghi.
Qui si apre un altro capitolo paradossale di una storia all’italiana. Un manager richiamato dagli Stati Uniti per guidare i navigator verso la rivoluzione del mondo del lavoro, e la cui presenza, invece, è stata rivelatrice di altro: di voli in business class, pagati dai contribuenti; di un doppio incarico – direttore Anpal e dipendente part-time dell’Università del Mississippi – non ammesso dal regolamento dell’agenzia; di rimborsi spese che hanno sforato i 130 mila euro, e sono oggetto d’indagine da parte della Corte dei Conti; di una gestione dissennata delle politiche attive, fatta direttamente dagli States per comodità familiari.
Eppure Parisi, che una settimana fa si è congedato dai suoi ex dipendenti, ha ignorato tutto ciò. Ha illustrato i grandi risultati della propria reggenza, in quella che ha definito “la più bella esperienza della mia vita professionale”: “Abbiamo consolidato il rapporto con le Regioni – ha spiegato -. Abbiamo creato il primo strumento digitale di integrazione automatizzata dei dati dei registri del lavoro. Abbiamo sviluppato un sistema digitale per la raccolta delle opportunità occupazionali nell’immediato”, eccetera eccetera. Ma soprattutto, “malgrado tutte le difficoltà, abbiamo dato un contributo fondamentale alla realizzazione del Reddito di Cittadinanza. Oltre 500 mila persone hanno avuto la possibilità di riaffacciarsi al mercato del lavoro e quasi 1 milione è stato riavvicinato al sistema dei centri per l’impiego, dove hanno ricevuto un’assistenza personalizzata e sviluppato un piano per il rientro o per una prima entrata nel mercato del lavoro”. Ovviamente questi sono dati di Parisi, inoppugnabili dal suo punto di vista. Mentre a Palermo – dati Anpal – soltanto l’8% dei percettori del reddito ha trovato un’occupazione (spesso a tempo determinato) passando dai Centri per l’Impiego. Briciole.
I navigator sono il prodotto finale di questo fallimento. Sono altri ‘precari’ dati in pasto all’opinione pubblica, che non si spiega a cosa servano. Ma che in realtà non sono mai stati messi nelle condizioni di lavorare al meglio: non solo a causa della pandemia, che li ha relegati in smart working per moltissimi mesi, senza il contatto diretto con la platea dei beneficiari; ma soprattutto per l’assenza di una piattaforma dove poter incrociare i dati (il modello della Mississippi Works, proposto da Parisi, sarebbe dovuto costare 25 milioni ma è sempre rimasto una scatola vuota). Sono stati vittime, inoltre, della pessima interconnessione fra i vari siti regionali, che di fatto non comunicano; e del grado di scolarizzazione dei beneficiari del reddito. Buona parte di essi non ha neppure la terza media, non è gente ‘appetibile’ per le aziende. Quindi l’obiettivo dei tutor era individuare un percorso di formazione, ancorché di impiego.
Come ha spiegato a Fanpage Antonio Lenzi, un navigator siciliano, co-fondatore di A.N.NA (associazione nazionale navigator), “a prescindere dalla pandemia esistevano problemi strutturali, che non hanno a che fare specificamente con il reddito di cittadinanza, anche se impattano sulla misura. In media l’utenza del reddito di cittadinanza ha una bassissima scolarizzazione, a volte non ha nemmeno la terza media, ha scarsissime competenze digitali, al punto da non saper inviare un’email o non saper consultare un sito internet, ha difficoltà a compilare un curriculum vitae e ha avuto una carriera lavorativa discontinua, fatta prevalentemente di lavoretti. A questi si aggiunge la categoria degli stranieri, che spesso hanno difficoltà di approccio alla lingua. Pensare che tutta quest’utenza possa essere ricollocata subito è propaganda”. “Il reddito di cittadinanza – spiegava il 42enne palermitano – ha avuto il merito di far emergere questa parte del Paese che forse il Paese non voleva vedere”.
Avrà tanti meriti il reddito, ma non è mai riuscito a raggiungere gli obiettivi dichiarati. Non ha creato lavoro, non ha implementato le funzioni dei Cpi (dove lavorano 12 mila persone in tutta Italia, contro le 50 mila che svolgono la stessa mansione in Germania), non ha responsabilizzato gli italiani (ricordate la storia delle tre ‘offerte’ prima della revoca del beneficio? Anche quella una fantasia), bensì li ha incentivati a diventare più furbi, e ad approfittarsi della situazione. Eppure c’è un’ultima grande occasione all’orizzonte. Il Recovery Plan. Nel Pnrr (piano nazionale di ripresa e resilienza) sono appostati 4,4 miliardi per le politiche attive di lavoro e formazione, e 600 milioni per potenziare i Centri per l’Impiego. Purtroppo è ancora poco chiaro il percorso di riforme utile a drenare queste risorse. Il governo Draghi, col licenziamento di Parisi, ha dato un primo segnale di rinnovamento. Ma serve altro, davvero tanto altro, per lasciarsi alle spalle un fallimento così profondo.