Come ogni anno arriva il Palermo Pride, ed è luogo comune ammirarlo incondizionatamente: l’obbligo morale che impone questo luogo comune è una spregiudicata presa di posizione antideterministica, per cui risulterebbe immorale giudicare il Pride come falsamente rivoluzionario. Soprattutto, è punto d’onore dell’intellettuale medio di sinistra non discuterne la qualità. Invece questa qualità può e deve essere discussa. E se questo evento sembra appartenere ancora alla cultura contestata e che esso considera superata, è anche perché sfida il buon senso borghese secondo gli stessi meccanismi con cui il piccolo borghese sfida l’outsider, cioè sventolandogli la sua superiorità morale (ma “fight fire with fire” non è davvero buffo e inutile?).
Però, neppure andando molto a ritroso con la mente verso giochi o fiere di una volta amati dalle nonne, in città o in campagna, si immagina qualcosa di più obsoleto del Gay Pride, una festa così antiquata da rendere la sagra del cocomero un appuntamento cosmopolita, tanto che forse nemmeno quel provocatore di Oscar Wilde avrebbe partecipato a un raduno così ingolfato da superstizioni e birignao erotici. La debolezza ideologica e pratica del Pride è la sua petitio principii: poter essere ‘normali’, persone da guadare con l’occhio indifferente dell’abitudine, ma ostentandosi differenti. E la beffa costante è che ostenta ma non si sostenta, anzi si affossa, nel suo glamour discriminatorio per cui i gay avrebbero il je ne sais quoi che manca a chi è diverso da loro, col vecchio trucco dialettico di convertire ogni disaccordo in espressione vigliacca di omofobia. Perché una parte di comunità gay ha scelto una formula di rivendicazione così reazionaria e debole?
Dispiace che tale ricorrenza si consegni, malgrado le intenzioni buone, al disastro dell’omologazione. Anziché l’inclusione nella loro routine, i “priders” richiedono alle masse una pura e semplice disposizione all’intrattenimento, alla felicità del consumo, e sembra ci sia vittimismo nascosto in questo, e nessuna fierezza. Magari la sconfitta è peccare di realismo borghese, quando mancano punte espressive e lingua vivace, e si mette in scena proprio quell’immaginario beghino di radice sessuofoba/omofoba che vede i gay come erotomani vistosi e impropri, e scegliendo la formula perdente del travestimento-spettacolo e del carrozzone coi sederini al sole. Predomina, allora, quel canone smandrappato della trasgressione e della libertà tipico delle condizioni fortemente idealistiche o idealizzanti: la selettività. E anche se lo spirito vuole essere un “inno allla gioia di amare”, umoristico e scanzonato, l’effetto è malinconico e greve, come ogni carnevale, oltre che sentimentale e moralistico, nel suo raccontare il consuntivo di tutti i tic e gli stereotipi di free love&trasgressione, ghirigoro codificato e fissato per sempre da regole. E il massimo che riesce a ottenere è attestarsi come sottocultura conservatrice. Quasi sempre «i conformismi sono teppisti», cioè oppongono al vero scandalo della ricerca libera, individuale, critica, il falso scandalo dell’accettazione di un atteggiamento stabilito.
Il “mondo gay”, come tutta l’umanità, è universo composito, magmatico, ma qui si affloscia sotto la reductio ad unum di una bandiera di folklore macchiettistica uguale per tutti. Pur non amalgamabili, gli individui finiscono per sembrare elementi di un insieme solidale, come qualunque sindacato o circoscrizione o cooperativa. Poteva finire peggio? E’ possibile una gay awareness che non agisca secondo marcature che generano stereotipe peculiarità e che non si idealizza, in cui la battaglia per l’uguaglianza non coincide col trito gioco dell’uscita allo scoperto? Gianni Vattimo disse che “ci vuole meno cancan, e più codice civile”. Una visibilità ottenuta appiccicandosi etichette e sfoggiando distintivi conduce per lo più a una ghettizzazione di tipo settoriale, e non per niente, come pensa Arbasino, gli ebrei o altre minoranze torturate non provano il bisogno di ostentare contrassegni o comportamenti specializzati per marcare la propria identità o diversità.