Per un giorno – ma solo per un giorno – vorrei essere uno di quei magistrati che passano la vita a cercare trame oscure e registi occulti, patti scellerati e inconfessabili complicità. Perché anche la politica regionale ha i suoi misteri. Mi inquieta – si fa per dire – l’ostinazione con la quale i maggiorenti di Fratelli d’Italia stoppano, senza mai dare una spiegazione, l’ipotesi di candidare Raffaele Stancanelli alla presidenza della Regione. E’ l’uomo che ha tutte le carte in regola: ha dimostrato, come sindaco di Catania, di essere un saggio amministratore, non ha mai tradito il valori del partito, non ha tentato scissioni, gode di una stima incondizionata da parte di tutti gli alleati di centrodestra. Ma – misteriosamente, beffardamente – i poteri forti di Fratelli d’Italia gli preferiscono e si impuntano su Nello Musumeci, il governatore che in questi cinque anni ha portato la Regione al disastro, che ha preso a schiaffi partiti e parlamento, che non ha perso mai occasione per mortificare gli alleati, che ha consentito al suo cerchio magico di prendere i pieni poteri, che fa finta di non vedere gli scandali costruiti dal Bullo e dai suoi avventurieri, che ha dato e continua a dare copertura a tutte le scempiaggini e a tutti gli sprechi del Balilla e della allegra confraternita delle faccette nere catanesi.
Quali interessi politici spingono i gerarchi minori che affiancano Giorgia Meloni a fare quadrato attorno a Musumeci – lo scissionista di Diventerà Bellissima, non dimentichiamolo – e a tenere fuori dalla porta, con callida arroganza, un uomo di tutt’altra pasta come l’europarlamentare Stancanelli? Quale ragione del cuore, per scimmiottare Pascal, spinge il senatore Ignazio La Russa, plenipotenziario per le trattative, o Francesco Lollobrigida, capogruppo alla Camera e nobile cognato della Meloni, a ignorare testardamente tutte le sacrosante ragioni che dovrebbero invece consigliare il partito a compiere una scelta di segno opposto?
Come nei gialli che si rispettano, la chiave per aprire il santuario dei misteri potrebbe nascondersi in un dettaglio sul quale le cronache del tempo non hanno insistito più di tanto. Dal novembre del 2017 e per due anni al vertice dell’assessorato regionale al Turismo c’è stata una persona davanti alla quale chiunque scattava sull’attenti: Sandro Pappalardo, un alto ufficiale dell’esercito plurilaureato e pluridecorato, persona di estremo rigore, di grande preparazione, di eccellente cultura e sensibilità. Ma nel giugno del 2019, senza clamore e con i toni felpati di un rito carbonaro, Pappalardo lascia l’assessorato di Via Notarbartolo per fare posto a Manlio Messina, un quadro intermedio del neofascismo catanese, senza un curriculum scintillante e senza una sua particolare forza elettorale. Chi l’ha voluto a quel posto? Le tracce si disperdono, come è ovvio. Ma in politica, quando non si conoscono le cause, basta guardare agli effetti. E gli effetti sono sotto gli occhi di tutti: Messina – un personaggio volgarotto a giudicare dalle chat e dai “suca” che dispensa agli amici – diventa l’assessore il cui unico obbiettivo sembra essere quello di spendere e spandere, di assegnare incarichi e campagne pubblicitarie, di investire milioni su promozioni e sponsorizzazioni, di aggiudicare appalti, di trasformare in una privativa l’Orchestra sinfonica siciliana, di creare un ricco e stravagante sottogoverno del cinema e dello spettacolo, di inventare eventi lussuosi e faraonici da Taormina fino alla Croisette, di ingrassare le agenzie di intermediazione e di arricchire l’editore che offre a peso d’oro briciole del Giro d’Italia per il sollazzo e il divertimento dei siciliani.
Se all’Assemblea regionale ci fosse un’opposizione degna di questo nome, un esame attento e scrupoloso dei finanziamenti assegnati dal Balilla – e dei percorsi che i finanziamenti hanno seguito – porterebbe quasi certamente a conclusioni sorprendenti su come è stato e viene tuttora malgovernato il turismo in Sicilia. E potrebbe anche gettare un fascio di luce non solo sui metodi adoperati dai caporali di Fratelli d’Italia per selezionare la classe dirigente alla quale affidare le sorti del Paese, ma anche e soprattutto sul mistero che spinge i gerarchi minori a rimanere aggrappati a Musumeci e a dire sempre no, ossessivamente no e tenacemente no a Stancanelli. Contro ogni logica, contro ogni decenza.