Sarebbe interessante che Marco Falcone, dal pulpito del Domina Zagarella di Santa Flavia, ribadisse a Schifani (e Tajani) ciò che ha affermato l’altro ieri dalle colonne di Repubblica. L’europarlamentare azzurro, assessore regionale all’Economia fino a poche settimane fa, ha aperto una faglia su cui si sono soffermati in pochi. Parlava del ritorno d’attualità dell’elezione diretta nelle ex province e del fatto che, di gran corsa, una proposta di legge sia stata depositata in commissione Affari Istituzionali, all’Ars: “Davanti a una materia talmente delicata – ha detto Falcone -, il mio partito avrebbe fatto bene a riunire tutti gli organismi prima di prendere una decisione. Un dibattito interno? No, lo abbiamo appreso dai giornali. Prima abbiamo letto del vertice in cui si riunivano per liste per le elezioni del 15 dicembre. E a un certo punto ci siamo accorti che si parlava di altro, per trovare un modo per non votare”.
Sembra che alcuni azzurri non si siano accorti della ritrovata coesione all’interno del centrodestra, sancita da tre vertici di coalizione e dalla folle iniziativa sul ripristino gli enti d’area vasta. Forse perché all’interno di FI la situazione è un po’ meno idilliaca. L’accusa di Falcone, più che a Schifani, è rivolta a chi il partito, almeno sulla carta, lo dirige: tale Marcello Caruso, ex coordinatore provinciale di Italia Viva a Palermo. Se non vi dice nulla, non preoccupatevi: il fedelissimo assistente del governatore, che è anche capo della sua segreteria tecnica, lavora all’ombra di Schifani e si scuote dal torpore solo per convocare gli alleati sul piede di guerra. Dimenticando, tutt’al più, di coinvolgere gli esponenti della stessa Forza Italia – ma questo Tajani lo sa? – sulle cose che contano: ad esempio su una proposta di legge controversa o, addirittura, sulla nomina di un assessore.
Anche la scelta di Dagnino, avvenuta nel momento più alto della gestione Caruso, è passata in sordina. Schifani non s’è consultato con nessuno. Anzi, aveva approfittato dell’addio di Falcone (in direzione Bruxelles) per dissuaderlo nel fare richieste, bocciando il nome che l’ex assessore gli aveva proposto per rimpiazzarlo: quello di Giovanni La Via. La scelta di Dagnino, che tutti hanno appreso dei giornali, non solo è risultata un’offesa alle competenze di un’intera classe dirigente, ma ha saputo nemmeno dare lustro a un partito che all’Assemblea regionale conta su 14 deputati (fra cui lo stesso presidente Schifani) e che fuori dall’aula, nelle ultime consultazioni elettorali, ha messo insieme il 24 per cento. Complice l’assist di Cuffaro e Lombardo: ma attenzione, anche i due big, leader di DC ed Mpa, sono tagliati fuori dai giochi di prestigio di Re Renato per garantirsi gli incarichi più succulenti.
Come già riportato in un altro articolo su Buttanissima, Schifani odia i deputati di Forza Italia, che dovrebbe invece amare, consultare e coccolare; mentre va letteralmente pazzo per quelli che sono stati i suoi nemici. Subito dopo avere vinto le elezioni, il neo presidente della Regione ha ceduto metà del regno a Gaetano Armao, l’opaco avvocato d’affari che alle Regionali del settembre 2022 fu candidato alla Presidenza, dunque suo rivale, sotto le bandiere di Carlo Calenda e Matteo Renzi. Gli ha offerto una consulenza di sessanta mila euro l’anno, gli ha affidato le pratiche più delicate che transitano dal retrobottega di Palazzo d’Orleans e, come se non bastasse, lo ha imposto al vertice della Commissione tecnico specialistica che stabilisce la “congruità ambientale” dei nuovi insediamenti industriali. Ma la magnanimità del presidente della Regione ha investito pure Caterina Chinnici, che nel settembre 2022 scese in campo contro di lui. Il Pd l’ha proposta come candidata per il vertice d’Orleans. Incassò una sonora sconfitta da parte degli elettori e anche pesanti critiche dalla classe dirigente della sinistra che si sentì tradita non solo dalle sue morbidezze nei confronti del centrodestra ma anche da certi suoi atteggiamenti persecutori e vagamente criminalizzanti.
Schifani – con la grossa complicità di Tajani, che pertanto non avrà nulla da rimproveragli – pensò bene di portarla dentro Forza Italia e di premiarla, nel giugno 2024, con una nuova elezione al parlamento europeo: la candidò come capolista e, siccome arrivò terza nella corsa a Strasburgo, fece in modo che Tamajo, giunto primo al traguardo, si dimettesse per assegnare a lei il seggio: un gesto che consentirà alla figlia di Rocco Chinnici, assassinato dalla mafia, di ottenere, a fine legislatura – la terza della sua carriera – una pensione di 21 mila euro al mese.
Ora, però, tocca a un altro nemico che Schifani ha voluto portare nel dorato mondo dei berluscones: cioè Giancarlo Cancelleri, il trasfuga arrivato dallo sfasciato universo grillino. Stando alle indiscrezioni provenienti da Piazza Indipendenza per lui sarebbe pronta la poltrona di presidente dell’Ente Porto di Palermo. Un incarico ricco e promettente. Anche lui – i veri forzisti dovranno farsene una ragione – non ha mai frequentato l’universo berlusconiano, anche se, a differenza di Armao e Chinnici, ha saputo attendere il proprio turno senza dare troppo nell’occhio. Anzi, fingendo di essersi affrancato dall’attività politica e tornando di rado sui social per giudicare cosa si poteva fare meglio. Onore al merito, però: Cancelleri, che è stato viceministro alle Infrastrutture, può ripiegare agevolmente su un porto e Schifani avrà pronta la scusa delle competenze. Se qualcuno avrà da ridire, Giancarlo è un tecnico.
Forza Italia resta ai margini dei pensieri del governatore. Più che controllarla, la doma. Ed evita che al suo fianco possa spiccare il volo qualcuno in grado di fargli concorrenza. Sia per la leadership del partito, che per quella della Regione. Micciché è stato esautorato all’indomani della vittoria elettorale con la scusa che aveva pretese eccessive per il controllo della sanità (altro assessorato che Schifani ha avocato a sé, grazie al cartonato della Volo); Falcone è stato spedito per direttissima a Bruxelles e cancellato dalle mappe (resiste a Catania); lo stesso Tamajo, confermato alle Attività produttive dopo il boom elettorale di giugno, è trattato alla stregua di un ronzino, nonostante sia un cavallo di razza. Mentre gli altri, sostanzialmente, rappresentano un contorno. L’interessante, per Schifani, è tenere lontani dal potere i tredici deputati forzitalioti dell’Assemblea regionale. A loro il governatore non offre nulla, nemmeno uno strapuntino di governo o di sottogoverno. Li tiene “murati vivi” – si fa per dire, ovviamente – tra i mosaici di Palazzo dei Normanni. Distribuisce posti ad avvocati, ad avvocaticchi, persino alle dame che gli organizzano le cene e soprattutto ai suoi ex nemici. Ma ai deputati di Forza Italia niente: solo indifferenza, schiaffi e umiliazioni.
Qualcuno ogni tanto sbotta (basti consultare le battaglie di Margherita La Rocca Ruvolo sulla sanità, o quelle di Luisa Lantieri sui diritti civili o sulla rappresentanza di genere), ma viene immediatamente ricondotto all’ovile. E Roma, dove si è levata la voce di Giorgio Mulé e Tommaso Calderone, rispettivamente vicepresidente della Camera e deputato della commissione Giustizia, è troppo lontana per farlo vacillare. Degli altri non c’è traccia. Sono e rimangono ‘murati’ in un partito che è diventato il surrogato di Fratelli d’Italia (sono note le preferenze di Schifani per i patrioti) e che Caruso non ha mai difeso abbastanza. Aspettano, forse, che risorgano le province per conquistare qualche poltrona di Serie B. Al Domina Zagarella, dove oggi e domani si svolge l’appuntamento con i gruppi di Camera e Senato, saranno tutti cuoricini e pucci pucci. A parlare per ultimi saranno Schifani e Tajani, e degli altri non rimarrà traccia.