Tra le numerose letture seguite ai risultati di sabato e domenica, con il sorpasso di Forza Italia a Fratelli d’Italia, almeno in Sicilia, ne manca una di importanza non secondaria. Cioè che all’interno dei due partiti di maggioranza relativa, è impossibile individuare la figura di un leader, di uno che comanda, che riesca ad assumersi dapprima la responsabilità del risultato (facile sostenere che hanno vinto tutti) e poi delle scelte che ne conseguono.

Nessuno, ad esempio, sottolinea abbastanza che il risultato dei patrioti nell’Isola è deludente perché, al netto delle circa 300 mila preferenze e del sorpasso dei berluscones, FdI ha perso 8,57 punti percentuali rispetto al dato nazionale (ha fatto peggio soltanto il Pd). E nessuno dei sedicenti cacicchi che guidano il partito in incognito, ha avuto l’ardore di metterci la faccia. Date un’occhiata ai social: troverete la fila di deputati ed esponenti di Fratelli d’Italia che si complimentano a vicenda, si scattano le foto, si stringono le mani. La Meloni, rinunciando al seggio di Strasburgo, garantirà un giro di valzer anche a Ruggero Razza (la moglie dovrebbe lasciare il governo della Regione), ma questo non cambia di una virgola lo scenario collettivo. Rispetto al plebiscito meloniano registrato altrove, FdI in Sicilia ha ceduto spazio al centro moderato, rappresentato da FI ma anche da Lombardo e Cuffaro.

E’ come se si fosse spenta la magia, o la fiamma, anche se tutti glissano. Secondo gli addetti ai lavori, ma è la considerazione più ovvia, i primi a pagare potrebbero essere Salvo Pogliese e Giampiero Cannella, rispettivamente segretari per la Sicilia orientale e per la Sicilia occidentale. Ma non è un mistero che, ormai da mesi, nessuno li considera più tali (e il Balilla, in un’intervista a Repubblica, ha già chiesto di riunificare le due segreterie). Tutto è delegato alle correnti, una in particolare. Ad avocare a sé la guida del partito, attraverso una serie di manovre con cui si è accreditato ai piani alti – in primis l’utilizzo dei fondi del turismo per concedersi l’affascinante vetrina dei talk show – è Manlio Messina, attuale vicecapogruppo alla Camera, autoproclamatosi conducator. Il quale, per evitare spiacevoli sorprese (per l’ennesima volta è fuggito dal sistema delle preferenze, non candidandosi), ha condotto una campagna elettorale in sordina, senza mai sbilanciarsi a favore dell’uno o dell’altro. Come un presidente dell’Ars qualunque, ha recitato il ruolo della Svizzera, anche se l’effetto collaterale di questo equilibrismo è che nessuno della corrente turistica ha avuto accesso al parlamento europeo. Alla Amata sarebbero servite altre quarantamila preferenze.

In FdI è tempo di una svolta perché nessuno è in grado di dirimere le vicende interne come quella che ha coinvolto Marco Intravaia, fuoriuscito dal partito e sostenitore del candidato sindaco che a Monreale ha staccato il pass per il secondo mandato con l’84 per cento dei voti validi (il competitor di FdI si è fermato al 5). E alla domanda su chi comanda, tutti fingono di non sapere. Si voltano dall’altra parte. E’ questo vuoto pneumatico di potere che ha consegnato alla Sicilia Renato Schifani (scelto nientepopodimeno che da Ignazio La Russa), ma anche un paio di assessori infelici (nell’operato) come Francesco Scarpinato ed Elena Pagana, imposti da Roma. Due sopravvissuti alle rispettive sconfitte elettorali, il cui destino potrebbe tornare in ballo col prossimo rimpasto. A proposito, chi andrà a trattare per conto dei patrioti al tavolo della maggioranza? E chi sarà a decidere gli ambasciatori? Giorgia in persona, o qualcuno dei suoi colonnelli, tipo Donzelli e Lollobrigida?

Lo stesso problema si pone per Forza Italia che, nonostante la vittoria, non ha ancora risolto il nodo legato alla leadership. Marcello Caruso è tutto – un capo di gabinetto, un suggeritore, un ventriloquo – fuorché un leader. Schifani opera da governatore e deve gestire l’inutile Consiglio nazionale. Tamajo proseguirà in un ruolo operativo all’interno della giunta (con probabile upgrade assessoriale). Falcone, assieme alla Chinnici, se ne andrà a Bruxelles per capitalizzare il fiume di consensi ricevuti. Ecco perché Tajani dovrebbe decidere sul da farsi e stabilire le nuove gerarchie. Altrimenti accade ciò che è accaduto nelle ore immediatamente successive allo spoglio: dove la minoranza del partito, capeggiata da Giorgio Mulé e dallo stesso Falcone, ha già chiesto un confronto interno per stabilire chi si è dimostrato leale alla causa e chi, invece, un semplice approfittatore.

La diagnosi di queste ore parla di un partito che non è neppure riuscito a godersi i numeri da urlo, che non si vedevano dall’epopea del primo Berlusconi. Il 24 per cento, frutto dell’aiutino dichiarato di Mpa e Democrazia Cristiana, rischia di diventare un successo sterile se al “partito pluralista” reclamato da Schifani, e divenuto sempre più confusionario, non si darà una forma stabile. Sarà imbarazzante anche per Tajani, chiamato a decidere sull’eventuale successore di Caruso, che era stato il Cav. a nominare nel marzo 2023 per venire fuori dall’impasse (ricordate Forza Italia 1 contro Forza Italia 2 e la baldoria degli schifaniani contro Micciché?).

La conta dei voti delle Europee, influenzata da fattori esterni, serviva anche a questo: cioè a stabilire quale delle due anime del partito avesse la meglio. Anche se i perdenti, oggi, accusano i vincitori di aver bluffato. E poi c’è la questione della giunta: bisognerà stabilire il sostituto di Falcone e di Giovanna Volo (in uscita dalla Sanità), ma anche a chi spetta – a quale corrente – l’onere della proposta. La tensione fra Roma e Palermo potrebbe avere strascichi e rischia di far precipitare Forza Italia dall’ebbrezza dei numeri alla depressione del presente. Tutti asserragliati e l’un contro l’altro armati: in attesa che qualcuno riporti ordine e disciplina.