La svolta epocale per il Movimento 5 Stelle è arrivata a cavallo di Ferragosto, quando sulla piattaforma di Davide Casaleggio – Rousseau – i pochi iscritti non-al-mare hanno deciso di derogare ai due mandati dei consiglieri comunali (si presume che la stessa deroga, a breve, varrà per parlamentari nazionali e regionali), ma soprattutto di sdoganare le alleanze con altri partiti politici a livello locale: hanno votato a favore il 59,9% degli aventi diritto. L’anno scorso, in Sicilia, c’erano state le prime avvisaglie: l’ingegnere Roberto Gambino era diventato sindaco (al secondo turno) di Caltanissetta anche grazie ai voti della lista civica ‘Più città’. Adesso, però, cambia tutto: soprattutto nei grossi centri, dove hanno spesso fatto fiasco, i grillini potranno proporre alleanze con il Pd, già alleato di governo a Roma, e provare a sbaragliare la concorrenza del centrodestra. Il passaggio non sarà automatico, perché come ha spiegato di recente Giancarlo Cancelleri, riferimento del M5s dell’Isola, le decisioni saranno assunte dagli iscritti su base locale – e non è detto che il Pd offra sempre soluzioni adeguate – ma quanto meno si infrange un tabù: quello del compromesso.

Anche il Movimento potrà scendere a patti, trattare su programma e candidati. E non correre inutilmente come avviene da anni in alcuni comuni (Palermo e Catania su tutti, forieri di enormi delusioni). Tutt’altro. I grillini, in alcune realtà locali, potranno far valere il peso dei propri rappresentanti di punta. Com’è avvenuto nei giorni scorsi a Termini Imerese, dove la presenza del deputato regionale Luigi Sunseri ha “facilitato” il percorso comune con il Partito Democratico e indotto il centrosinistra a confluire sulla proposta di Maria Terranova, consigliera comunale uscente e facilitatrice per formazione e coinvolgimento. Ne è scaturito un comunicato quasi congiunto, in cui l’ufficio stampa del M5s spiega che “l’esperienza del governo Conte con l’alleanza politica e strategica tra il Movimento 5 Stelle e il Partito Democratico può essere applicata anche a livello territoriale in occasione delle elezioni amministrative di Termini Imerese” per “dare vita ad una amministrazione sana, democratica, capace di rispondere al desiderio di cambiamento già espresso dai cittadini termitani. Per ottenere questi risultati – ci tengono a ribadire i grillini, che non per questo hanno voglia di abbandonare la loro anima “purista” e rivoluzionaria – è necessario però operare una rottura con le esperienze fallimentari delle precedenti amministrazioni del recente passato”.

Imbarcare il Pd sulla strada del cambiamento corrisponde a un prodotto difficile da vendere. Ma all’orizzonte non si vedono altre soluzioni. Eppure si tratta dello stesso Movimento che, ormai un anno e mezzo fa, aveva salutato con soddisfazione l’ingresso al governo nazionale in compagnia della Lega. E che oggi, dopo aver criticato aspramente gli ex alleati del Carroccio, sposano le tesi del “partito di Bibbiano” (cit. Luigi Di Maio), perché hanno capito – fondamentalmente – come funziona la politica. Ma, soprattutto, che da soli non si va da nessuna parte. Al massimo, un ballottaggio. Gli ultimi due, per la verità, sono stati esaltanti: sia a Caltanissetta che a Castelvetrano (con Enzo Alfano) il M5s ha fatto il pieno. Ma altrove è stata una disfatta: a Bagheria e Gela, per esempio, comuni reduci da un paio di Amministrazioni fallimentari (con Patrizio Cinque e Domenico Messinese). Ma anche a Ragusa, dove il M5s aveva raccolto il 50% alle Politiche per poi perdere la poltrona di primo cittadino dopo una intifada interna. Sono solo alcuni degli esempi che non verranno più riproposti.

Oltre all’accordo di Termini, a breve sarà annunciato quello di Barcellona Pozzo di Gotto, dove però il candidato sindaco è Antonio Mamì, che proviene da un’esperienza civica di sinistra (già: il M5s non potrà imporre soltanto chi gli aggrada, ma sarà costretto ad accettare quelli altrui). Sarà una battaglia difficile, dato che nel centro peloritano il centrodestra arriva più o meno unito a sostegno dell’avvocato Pinuccio Calabrò. Ma è un test e va preso come tale. Il collante di questa alleanza è il partito di Claudio Fava, i Cento Passi. Fava, il Pd e i Cinque Stelle, come all’Ars, metteranno insieme le forze e proporre un’alternativa. Non ci sono riusciti, non ancora, nei grossi centri come Enna ed Agrigento. Sia nel primo che nel secondo caso il Movimento non rinuncia ai propri candidati di bandiera: Cinzia Amato e Marcella Carlisi. Anche Marsala, fra i comuni più popolosi al voto, correranno con un proprio esponente: Aldo Rodriquez, un altro consigliere uscente già benedetto dal capogruppo all’Ars, Giorgio Pasqua ma indigesto all’ex deputata senza volto, Piera Aiello, che ha deciso di starsene fuori dalla contesa.

Sarà un percorso difficile, pieno di ostacoli (prevedibili e imprevedibili). Ma è un primo passo per l’emancipazione di un Movimento che su base locale non ha mai sfondato veramente e dopo aver raccolto percentuali stratosferiche nel voto d’opinione – trascinato da Beppe Grillo – lungo la transizione da partito di protesta a partito di governo sta risentendo della fatica e delle contraddizioni. Questa è una che si somma alle tante. Ma rappresenta un bivio, l’istinto ultimo di sopravvivenza. Adeguarsi agli altri o sparire. Anche a livello nazionale, col ritorno (?) del proporzionale, potrebbe rivelarsi necessario un ammiccamento al Pd. Ma soprattutto in Sicilia, dove il grillismo – piaccia o no, è ancora un fenomeno (primo partito alle ultime Europee, oltre il 31%) – l’idea di abbracciare nuove esperienze “inclusive” e proporre campi larghi, potrebbe avere i suoi risvolti. E che risvolti.

Fra due anni si vota per le Regionali. E’ ancora presto, si dirà. Musumeci non è certo della propria ricandidatura, e il centrodestra della propria compattezza. Ma è fra i banchi dell’opposizione di Sala d’Ercole che si sta cercando di disegnare il futuro. Il Movimento 5 Stelle, con 15 deputati (erano 20 a inizio legislatura), è l’architrave del parlamento siciliano. Nonostante i risultati portati a casa restano pochini in proporzione alla voglia di opporsi a tutti i costi e dire ‘no’ a tutto. Ma anche questo atteggiamento sembra lenito dalle ferite del tempo e dalla voglia, presente in alcuni deputati più che in altri, di rendere davvero un servizio a questa terra (lo dimostra l’approvazione, con voto favorevole del M5s, della riforma urbanistica). Il Movimento 5 Stelle sta cambiando progressivamente pelle. E Cancelleri ha riassunto il momento in un periodo: “Abbiamo iniziato questo percorso con il Pd in due comuni. E penso che questo percorso debba portare a un’alleanza anche per le prossime Regionali. Nel 2017 abbiamo perso per una manciata di voti, e io non voglio più perdere”.

Il consolidamento di un progetto si basa (anche) sul riconoscimento dei programmi comuni – l’unico non può essere “cacciare” Musumeci – ma non può prescindere dai motivi d’opportunità da cui i grillini spesso rifuggono. Impossessarsi della Regione siciliana non è facile (Cancelleri ci ha già provato due volte e ha perso). Il centrodestra è ancora maggioranza, mentre i partiti di sinistra, come il Pd, pagano lo scotto di un’esperienza drammatica come la stagione di Crocetta (a cui il M5s per un certo periodo di tempo ha contribuito). Ma tutto può nascere attorno ai volti “nuovi”. I dem hanno eletto da poco segretario Anthony Barbagallo, che non ha mai nascosto, nemmeno durante le intemperie, quale fosse la prospettiva: la costituzione di un “campo” largo che guardi preferibilmente a sinistra (dalle parti di Claudio Fava e di Pietro Bartolo), ma che accolga al suo interno le sensibilità più moderne e differenti: l’ambientalismo e la lotta alle diseguaglianze.

Pane per i denti del Movimento 5 Stelle, le cui prossime mosse – cedere alla tentazione, o rifugiarsi ancora sull’Aventino – potrebbero determinare il destino di una Regione che negli ultimi anni si è appiattita sugli schemi di sempre. Il M5s questi schemi vuole romperli, ma non potrà riuscirci da solo. Per questo sembra aver scelto. La fase-due è appena cominciata nei Comuni.