I giorni neri di Alfano

Ha lasciato sgretolare la plancia di comando mentre lui, Angelino Alfano, era già sparito portandosi il timone dietro. Oggi fa l’avvocato. Ogni tanto si esibisce al karaoke ma è un ripiego. Ha abbandonato la politica attiva nel settembre 2018, dimettendosi da presidente di Alternativa Popolare, la formazione nata dalle polveri del Nuovo Centrodestra, che per Angelino, a lungo il “delfino” di Berlusconi, rappresentò l’inizio della fine della sua avventura politica. Anche se a livello istituzionale è stato fra i ministri più longevi: con Berlusconi, dal 2008, Guardasigilli; senza Berlusconi, dal 2013, Ministro dell’Interno (due volte) e degli Esteri. Un bel pedigree considerate le percentuali da zero virgola che gli italiani, al primo vero test (Politiche 2018) garantirono alla sua Civica Popolare, che nel frattempo era passata di mano a Beatrice Lorenzin.

La stagione di Alfano, in realtà, era già terminata. Nel dicembre 2017, alla vigilia delle elezioni targate Lega e Cinque Stelle, Angelino si era tirato fuori da tutto. Capendo che non era aria. Rimarrà ministro fino a giugno 2018, per gli affari correnti, poi addio. Così la sua fitta rete ha preso, man mano, a disintegrarsi. Anche adesso che Alfano si è fatto crescere la barba e ha deciso di svolgere la sua professione tra Italia e Africa, lontano dai media e da sguardi indiscreti, i suoi discepoli rimangono “protagonisti”: più di vicende giudiziarie che politiche. Quelli che hanno provato a rimanere in politica, hanno spesso fallito. Prendete Giovanni La Via, fedelissimo dell’ex ministro, che col Nuovo Centrodestra ottenne addirittura un seggio a Bruxelles. Dopo aver appoggiato Micari nella corsa a palazzo d’Orleans, nel 2017, è tornato alla casa madre (Forza Italia), che però gli ha sbattuto le porte in faccia, rilegandolo in tribuna per la corsa al Parlamento europeo.

Anche se Alfano se ne sta in disparte, il suo nome – e non soltanto per mezzo di altri – torna spesso di moda. A tirarlo fuori dai cassetti di una complicata inchiesta sul “sistema Montante” è stato infatti Claudio Fava, che ha definito “imbarazzanti” le risposte offerte dall’ex Guardasigilli in sede di audizione di fronte alla commissione regionale Antimafia. Al centro del dibattito i suoi rapporti, non solo amicali bensì istituzionali, con il leader di Confindustria Sicilia. “Era un’icona, più era creduto e più diventa credibile” ha provato a discolparsi Alfano. Che, però, ha continuato ad accogliere Montante al Viminale anche dopo l’apertura dell’indagine a suo carico, che diventò di pubblico dominio il 9 febbraio 2015. Da quel momento avrebbe dovuto rimuoverlo da capo dell’Agenzia dei beni confiscati (nomina arrivata una ventina di giorni prima), ma non mosse un dito. “Alfano mantiene inalterata la sua relazione con quel signore – spiega Fava – E’ una scelta che espone il Ministero e le istituzioni in generale. Il Ministro non può prendere un caffè al bar con un indagato per reati di mafia. Anche se è il suo migliore amico”. Parole che rivelano una condotta istituzionalmente sconveniente.

La Sicilia, viste le origini agrigentine di Alfano, era diventata la sua roccaforte. E’ nell’Isola che lui e Berlusconi contano i voti: quando Alfano rompe (fine 2013), concedendo ai suoi ministri di rimanere nella formazione del governo Letta, che intanto si pronuncia per l’incandidabilità del Cavaliere, in tanti lo seguono. Tutti innamorati di Angelino e del suo partito “di governo”. Da La Via a Cascio, è un’esplosione di amicizia e di consensi. Ecco, Cascio. Da qualche giorno finito nel polverone di dell’inchiesta di Castelvetrano, il comune del super latitante Messina Denaro. Secondo i magistrati, sarebbe la talpa (la seconda) che nel 2016, travalicando i doveri d’ufficio, informò Giovanni Lo Sciuto, altro ex forzista in quota Alfano, che la procura indagava sul suo conto, e sui movimenti per accaparrarsi favori e clientele. Lo stesso Lo Sciuto (arrestato nell’operazione Artemisia), uno di quelli che con la fine di NCD deciderà di tornare in Forza Italia, fra il 2014 e il 2016 ebbe 156 telefonate col segretario particolare di Alfano, Giovannantonio Macchiarola. Cioè colui che farà venir fuori dal Viminale – secondo le intercettazioni – proprio i dati relativi al procedimento che riguardava Lo Sciuto. Insomma, un’altra talpa (la prima).

“Le intercettazioni – scrivono i magistrati – hanno documentato che il titolare del Viminale, Angelino Alfano, grazie ai contatti istituzionali derivanti dalla carica rivestita, era entrato in possesso del dato relativo al procedimento penale nel quale Lo Sciuto era ricompreso. Tale importante notizia era diventata di dominio pubblico anche dell’entourage del ministro, con particolare riguardo a Giovannantonio Macchiarola”. Che la usò per informare Cascio e giungere a Lo Sciuto. Alfano non riuscì a tenere a bada i suoi uomini, che gli sfilarono le carte sotto il naso e presero a divulgarle. Arrivando al responso odierno: Cascio – che fu anche il primo coordinatore regionale del Nuovo Centrodestra – ai domiciliari, Lo Sciuto arrestato, Macchiarola indagato.

Tra i luogotenenti alfaniani nell’Isola c’era anche Giuseppe Castiglione. Ha chiuso con la politica per dedicarsi a un’attività imprenditoriale che si presume redditizia (la coltivazione legale di cannabis è la moda del momento), ma in questi giorni è alla sbarra, a Catania, nel processo sul Cara di Mineo, in cui Castiglione è entrato come “soggetto attuatore” del centro d’accoglienza. A suo carico pende anche un’accusa di corruzione, oltre a quelle di falso e turbativa d’asta: l’ex sottosegretario e presidente della provincia di Catania avrebbe promesso assunzioni al Cara in cambio di sostegno elettorale. Un’altra moda del momento.

Anche a livello politico l’effetto Alfano si è esaurito. Alle Regionali del 2017, con La Via candidato vice-governatore al fianco di Micari, Alternativa Popolare (assieme ai centristi di D’Alia) non raggiunse la soglia utile per superare lo sbarramento del 5% (si fermò al 4,1). E alle Politiche, con Angelino sganciato dalla coda del gruppo, l’operazione centrismo allestita assieme alla Lorenzin, per dar seguito a un’infelice operazione di governo con il Pd, non ebbe un grande esito (lo 0,5% su scala nazionale). Segno che quest’uomo, prodigo di amici e dicasteri, non ha lasciato quella grande eredità politica che il suo curriculum, a una prima rapida occhiata, suggerirebbe.

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