Non gli andava bene la Pagana: troppo vicina a Ruggero Razza (eufemismo) e prossima a Nello Musumeci, che proprio non ne voleva sapere di togliere le tende dalla residenza dorata di Palazzo d’Orleans; non gli va bene, neppure adesso, Francesco Paolo Scarpinato, calato dall’alto – senza aver preso i voti – dal tandem Messina-Lollobrigida, che avrebbero voluto assicurarsi altri cinque anni di controllo dell’assessorato al Turismo (e ci stanno comunque riuscendo: con Elvira Amata); non gli andava bene che l’ex assessore al Territorio, anch’egli passato sotto le insegne meloniane, Toto Cordaro, diventasse subcommissario della struttura nazionale per la depurazione delle acque (dietro un altro catanese in quota FdI, Fabio Fatuzzo); e per lunghi tratti non gli è andato bene che il presidente dell’Ars, Gaetano Galvagno, avesse una visione critica dell’operato del governo, reo di non mettere abbastanza carne al fuoco sul barbecue di Palazzo dei Normanni.
Fra i numerosi incidenti diplomatici che hanno coinvolto Schifani in questo primo anno (abbondante) di legislatura, quelli più pericolosi hanno riguardato uomini e donne di Fratelli d’Italia. Guarda caso, il partito che l’ha “inventato” presidente della Regione. Non lo voleva neppure Forza Italia; però l’ex presidente del Senato ha trovato il modo e le sponde per mettere la ciliegina su una carriera politica di prestigio. Quella sponda si chiama Ignazio La Russa. Cioè l’uomo che Schifani è solito consultare nei momenti di difficoltà. Al cui volere, però, tocca “inchinarsi”. E’ stato La Russa a convincerlo della bontà di accettare le nomine iniziali degli assessori Pagana e Scarpinato, nonostante il furore tipico dei giovanotti alle prime armi; è al presidente del Senato che Schifani s’è rivolto dopo lo “scippo” di Salvini sui fondi Fsc (anche se il responsabile della rimodulazione è un altro patriota, Raffaele Fitto); ed è al solito La Russa che ha consegnato la propria ira, “rombo di tuono” come Gigi Riva, dopo la clamorosa decisione di Nello Musumeci, ministro della Protezione civile, di non riconoscere lo stato di crisi alla Sicilia dopo gli incendi della scorsa estate.
Questa volta il numero 2 di FdI s’è trovato fra due fuochi amici. Schifani da un lato e Musumeci dall’altro. E il ruolo di mediatore è davvero un supplizio. Mentre va arricchendosi la schiera dei nemici, e potenziali vittime del rancore presidenziale: Musumeci, che peraltro aveva perorato la causa siciliana dopo la vicenda del miliardo e 300 mila euro per la realizzazione del Ponte, stavolta ha giocato sull’altra sponda. Ha giustificato il ‘no’ alla Regione sugli incendi, adducendo motivazioni tecniche: una carenza documentale che persino l’assessore all’Energia Roberto Di Mauro, ha rispedito al mittente. “Una risposta, negativa, arrivata con 7 mesi di ritardo rispetto alla domanda – ha detto l’esponente del Mpa -. Una domanda, peraltro, assolutamente documentata da un’ampia relazione di oltre 500 pagine redatta in modo certosino dal dirigente della Protezione Civile, ingegner Salvatore Cocina”.
Ma la sostanza è che Schifani aveva già litigato. Il rapporto con Musumeci non è mai stato idilliaco e, a pensarci bene, non poteva esserlo, dato che il neo ministro della Protezione civile è stato scippato del trono di Orleans e di un pezzo della propria eredità politica per colpa del “banditismo politico” del centrodestra. Gli hanno portato via persino la Coppa d’Assi dalla tenuta di Ambelia, rivalutata con decine di milioni durante la sua ultima legislatura. Sarebbe stato un fesso a stendergli il red carpet alla prima occasione. Cosa diversa è fare gli interessi della Sicilia (mercoledì sarà un vertice a decidere sul destino dello stato di crisi). Resta, tuttavia, una distanza quasi impossibile da colmare.
Come quella che, al momento, separa Schifani e Scarpinato. L’assessore ai Beni culturali s’era inventato l’aumento del 30% dei ticket di parchi e musei a partire dal primo gennaio, senza comunicare nulla al suo capo; che come sempre si era risentito, e ha costretto il patriota a dimezzare l’aumento. C’erano già stati alcuni scontri: sullo scandalo di Cannes, quando l’assessore non avrebbe vigilato abbastanza sui provvedimenti emessi dagli uffici (non che un affidamento di 4 milioni senza bando a una società lussemburghese possa passare sotto traccia); e anche sulle aperture all’arcirivale Cateno De Luca, relativamente alla gestione del Teatro Antico di Taormina. Se fosse passato l’emendamento Scateno, concordato con l’assessore ai Beni culturali, Schifani sarebbe potuto arrivare addirittura a dimettersi (versione che è poi stata smentita dall’entourage del presidente).
Le tensioni con Scarpinato hanno provocato le scintille con Manlio Messina, altro esponente di spicco di Fratelli d’Italia. Il vicecapogruppo meloniano alla Camera, in occasione dei fatti di Cannes, ha prodotto un affondo durissimo – sull’incapacità di Schifani di leggere le carte – ma è stato clamorosamente graziato. I mugugni, ogni qual volta il governatore ha messo il becco negli “affari interni” del turismo – ritirando in autotutela, dopo Cannes, anche un altro atto che concedeva mezzo milione a Urbano Cairo per l’organizzazione del ‘Palermo Sport Tourism Arena’ – si sono palesati sui social e a mezzo stampa; poi, capendo di non poterla spuntare, il capo del governo ha messo da parte i rancori presentandosi alla festa di Brucoli, organizzata proprio dal Balilla, elevandolo al rango di “consulente personale”. Tutto superato, insomma.
Ma c’è dell’altro. Quando arriva la nomina di Fatuzzo e Cordaro nella struttura commissariale di depurazione delle acque, nomina concordata da Fitto e Pichetto Fratin (ministro dell’Ambiente) perché di competenza di Palazzo Chigi, Schifani riesplode senza motivo: definisce Cordaro “come ex politico dotato di breve conoscenza della materia acquisita nel volgere del suo ruolo istituzionale”. Ma nemmeno l’ex parlamentare Fatuzzo, eletto anni addietro con An, si salva: “Il mio grande stupore – disse Schifani – consiste nel fatto che si è passati dal professor Maurizio Giugni, ordinario di ingegneria idraulica, e quindi dotato di altissima competenza e preparazione sul delicatissimo settore che vede la Sicilia particolarmente coinvolta, ad un ex parlamentare che, nel pieno rispetto della sua prestigiosa carriera, non presenta alcuna preparazione specifica. Mi auguro che il governo nazionale rifletta attentamente su queste scelte”. Le cose sono rimaste com’erano, perché Schifani, al netto della difesa di La Russa, non gode di grande stima a Roma. E gli ultimi fatti, come la rimodulazione dei fondi Fsc per il co-finanziamento del Ponte sullo Stretto, lo dimostrano.
Ma in questa carrellata di fatti e di nemici, tutti di Fratelli d’Italia, impossibile dimenticare uno dei maggior interpreti di un’estate di passione: il ministro Adolfo Urso. Il responsabile delle Imprese e del Made in Italy è stato il suo bersaglio preferito. Il motivo? Impicciarsi troppo. E’ accaduto sulla ri-costituzione della Camera di Commercio del Sud-Est, che gioca un ruolo fondamentale per il controllo di Fontanarossa (Urso ha immediatamente “impugnato” la scelta della Regione di tornare allo schema del 2021, prima dell’abrogazione); ed è successo di nuovo, a luglio, dopo che un sovraccarico ha determinato l’incendio all’aeroporto ‘Bellini’, evidenziando le numerose magagne sia a livello infrastrutturale che di gestione. La richiesta di commissariamento della Sac, è stata interpretata da Schifani come un’ingerenza. Il governatore ha bollato le critiche di Urso come “polemiche sterili” e “a tutela di vicende localistiche”. Una guerra sotterranea di potere che ha varcato i limiti della continenza istituzionale, generando un cortocircuito coi patrioti. I cui effetti non sembrano svaniti: adesso è il turno di Musumeci. Dopo la fredda staffetta istituzionale di quattordici mesi fa, sembra arrivata la resa dei conti.