La prima notizia è che il reddito di cittadinanza continua a seminare scandali: nella lunga lista dei “furbetti” denunciati dalla Guardia di Finanza di Trapani, sono comparsi (addirittura) alcuni sodali e fiancheggiatori di Matteo Messina Denaro, il boss introvabile della vecchia Cosa Nostra. Segno che lo scandalo determinato dall’attribuzione del sussidio grillino, ha varcato ormai i limiti della decenza. La seconda novità è che la Legge di Bilancio approvata alla Camera dei Deputati, che attende il “via libera” dal Senato, ha rifinanziato la misura per 4 miliardi fino al 2029. Quattro miliardi, gli stessi soldi che la maggioranza giallorossa vuole investire sulla Sanità. Questi due elementi di riflessione viaggiano a braccetto nei giorni in cui l’animata discussione sul reddito minimo, che alcune settimane fa persino Luigi Di Maio aveva rimesso all’ordine del giorno, si è spenta coma una fiammella.
Non esistono dati – al netto di quelli di ottobre – che facciano pensare a una rinascita della misura, capace di garantire un lavoro ad appena il 14% dei suoi beneficiari (sono quelli che, al 31 ottobre, avevano un contratto in corso). Il Ministro degli Esteri è stato il primo ad ammettere che una cosa è il Rdc, un’altra le politiche attive del Lavoro, e che bisognerebbe scorporarle in qualche modo. Un timido ‘mea culpa’ che l’assessore al Lavoro, nonché madrina del reddito, Nunzia Catalfo, ha rispedito al mittente: l’unica apertura riguarda la possibilità di collegare una parte dell’assegno al pagamento degli affitti, ma lo scenario-2 non prevede rivoluzioni. Eppure la situazione lentamente peggiora e anche la posizione dei 2.700 navigator – cioè le figure di tutoraggio che dovrebbero collegare i disoccupati alle imprese – è appesa al filo del precariato: i contratti formulati a settembre 2019 scadono nel prossimo aprile e sul tavolo della ministra, nei giorni scorsi, è giunta una lettera da parte dell’Associazione nazionale navigator che implora il rinnovo.
I numeri restituiscono, oltre ogni ragionevole dubbio, la portata del problema. In Sicilia, ad esempio, sono quasi 700 mila i beneficiari del reddito di cittadinanza. Fanno parte di 244 mila nuclei familiari (con un assegno medio di 619 euro al mese). Mentre, secondo gli ultimi dati che l’Inps ha incrociato con l’Osservatorio nazionale sul reddito, 23.194 persone percepiscono la pensione di cittadinanza, a 251 euro al mese. La Sicilia, come sempre, occupa la seconda posizione nazionale in termini di percettori, alle spalle della Campania. Ma nell’anno del Covid, è aumentato in maniera considerevole il numero di chi si abbevera alla fonte dei sussidi: 198.120 nuclei rispetto ai 162.342 di fine 2019, con un aumento del 22%. E nella classifica dei primi dieci comuni continuano a comparire Palermo (in seconda posizione, alle spalle di Crotone) con 51,5 persone ogni mille abitanti; Catania, in quarta, con 48,2; e poi Siracusa, Trapani e Caltanissetta, fra la sesta e l’ottava piazza.
Catania è stato il Comune con il maggiore incremento rispetto all’anno prima: +29% (pari a oltre 12 mila famiglie); Palermo s’è fermata al 24%. Anche se in altri comuni capoluogo, come Roma, la crescita è stata più netta. Ma qui la questione non è quanto siamo poveri (la Sicilia, dati Istat alla mano, ha visto aumentare il tasso della disoccupazione giovanile, mentre il numero degli occupati, a Palermo, è crollato sotto il 35%), bensì se esiste un piano per reinserire queste persone nel mondo del lavoro, o se, al contrario, sono “condannate” per sempre a rimanere sul divano (i primi hanno già rinnovato il beneficio dopo 18 mesi). Il tema delle politiche attive, infatti, è serissimo. E basta un numero per confutare le doti salvifiche di questo strumento: al 31 ottobre, nell’Isola, gli adulti tenuti a firmare un Patto per il Lavoro (presso i centri per l’impiego) erano 282.022, di cui appena il 19% aveva sottoscritto almeno un contratto. Non significa che quel contratto fosse valido al momento della valutazione. Anzi, spesso non è così. E’ un dato di fatto che sulla piattaforma dell’Anpal, l’agenzia che si occupa di politiche attive per conto del Ministero, siano davvero pochissime le aziende interessate ad assumere – in Sicilia – questa massa informe di inoccupati.
Laddove le politiche attive non sono riuscite a sopperire, è andata addirittura peggio con l’impiego nei progetti di pubblica utilità (Puc) redatti dai Comuni. A un certo punto, infatti, si è deciso che per microprogetti legati al verde pubblico, al volontariato, all’assistenza nei confronti di anziani e disabili, all’organizzazione di attività formative o culturali (tutte cose di cui c’è un gran bisogno in tempi di ristrettezze economiche), si attivassero gli enti locali. Ma al 30 novembre sono soltanto 41 quelli iscritti sulla piattaforma del Ministero, per un totale di 3 mila persone da coinvolgere. Una parte residuale dell’immensa platea composta da 694 mila persone. Prima di Natale, Caltanissetta è stato il primo comune capoluogo di provincia, in Sicilia, ad avviare l’immissione in servizio dei primi lavoratori con il reddito di cittadinanza. Da parte degli esperti dei servizi sociali, infatti, è stato stilato un catalogo di dieci progetti di utilità collettiva riguardanti l’ambiente, la manutenzione e la custodia degli impianti sportivi e delle ville comunali; poi sono stati individuati 200 percettori all’uopo (di cui un centinaio dai comuni limitrofi) e infine, nel primo cantiere, sono anche partiti i lavori. Ma, sostanzialmente, siamo di fronte a un’eccezione.
Gli altri rimangono sul divano a rigirarsi i pollici o, nel caso peggiore, sfruttano questo canale per truffare lo Stato. Come nel caso delle 127 persone denunciate, di recente, dalla procura di Trapani: alcune di essere non hanno dichiarato nemmeno le ingenti vincite al gioco (con cifre superiori a 12 mila euro decade il beneficio); altri hanno totalmente sorvolato sulla dichiarazione di proprietà della prima casa e di altri immobili; altri ancora, i peggiori, hanno chiesto e ottenuto il sussidio nonostante una condanna per reati di mafia. Come accaduto giorni prima anche a Messina. Il reddito minimo resta un terreno facilmente permeabile per il malaffare. Eppure c’è chi, come i signor Nello di Solarino, 53 anni, non ne aveva mai fatto richiesta, pur essendo caduto in disgrazia e raccattando cibo in chiesa. Alcuni carabinieri lo hanno aiutato a compilare i moduli alla vigilia di Natale.
Al netto di poche storie liete, che appaiono quasi stonate in questo scenario tragicomico, restano le responsabilità di un partito che ha usato la teoria del reddito di cittadinanza come “moneta di scambio” per arrivare al governo. Ma che, come suggerisce il collega Dario Di Vico in un articolo sul Corriere della Sera, attestante il fallimento della misura, “a tradire i 5 Stelle è stato un deficit di conoscenza del Paese: per migliorare veramente i saldi occupazionali non basta cambiare l’offerta, ma bisogna agire sulla cronica debolezza della domanda di lavoro, bisogna sporcarsi le mani e fare i conti con il mercato e le scelte delle imprese”. E poi comunque “le riforme hanno bisogno di tempo, la loro implementazione non può essere piegata ai calcoli politici solo perché c’è alle porte una campagna elettorale dove raccontare di aver abolito la povertà”. Pur avendo vinto le elezioni del 2018 in pompa magna, ed essendosi assicurati l’ingresso in un esecutivo di scopo (con la Lega), il Movimento ha dovuto cedere pezzi del proprio bottino: in primis, rinunciando a una parte cospicua dell’investimento previsto – 16 miliardi – perché utile a rimpinguare (anche) il capitolo di Quota 100.
Alla fine la posta in palio (6 miliardi) si è rivelata magra, e la lotta alla povertà e alla disoccupazione – da condurre con misure di accompagnamento all’erogazione del sussidio – praticamente assente. Sia Conte che Di Maio sono stati i primi ad ammetterlo, assieme al presidente dell’Inps Pasquale Tridico; e hanno invocato un “tagliando”. Forse si fa ancora in tempo a cancellare l’onta del divanismo. O forse – i 4 miliardi appena varati in manovra ne sono il sentore – c’è ancora voglia di andare a sbattere sui propri errori, a costo di salvaguardare lo status quo di “onesti” che fin qui, però, ha cozzato con le esigenze superiori del Paese.