Pubblicazione di notizie coperte da segreto istruttorio; diffusione di intercettazioni penalmente irrilevanti; colpevolizzazione preventiva; annientamento della privacy di indagati e imputati: il circo mediatico-giudiziario è entrato a far parte della vita del nostro Paese. Un meccanismo infernale, che ogni giorno spazza via carriere professionali, stabilità economiche, reputazioni, rapporti familiari, sociali e affettivi. Talvolta, vite intere. Nel suo libro “I dannati della gogna” (la prefazione è affidata a Gian Domenico Caiazza), Ermes Antonucci ripropone al lettore venti storie esemplificative di vittime della gogna mediatico-giudiziaria. Dopo Calogero Mannino, vi proponiamo il secondo estratto: il protagonista è l’attuale sottosegretario alla Difesa, ed ex direttore di Panorama, Giorgio Mulè.
«Mi sento esposto al fuoco di un cecchino»
Il processo mediatico ha raggiunto una nuova e inquietante frontiera. È quella in cui una persona mai stata indagata, imputata, né tantomeno sentita come testimone o persona informata dei fatti viene giudicata sul piano morale da un magistrato all’interno di una sentenza di condanna che riguarda altri imputati, per poi essere messa alla gogna dai giornali e persino da una commissione parlamentare d’inchiesta. La prima vittima di questa nuova forma di tritacarne mediatico-giudiziario è Giorgio Mulé, giornalista, ex direttore di “Panorama” e oggi deputato di Forza Italia.
Il suo nome è stato tirato in ballo dagli inquirenti nell’ambito dell’inchiesta su Antonello Montante, l’ex presidente di Confindustria Sicilia, per anni considerato un paladino dell’antimafia, condannato nel maggio 2019 in primo grado a quattordici anni di carcere per associazione per delinquere finalizzata alla corruzione e accesso abusivo a sistema informatico.
Mulé con i fatti che hanno portato alla condanna di Montante e degli altri imputati non c’entra nulla, tanto che non è mai stato neanche indagato o ascoltato dai magistrati. Nell’epoca della gogna, però, basta poco per scatenare il fango.
Nelle carte dell’inchiesta è infatti finita una vicenda che riguarda l’attuale deputato di Forza Italia: nella primavera del 2014 Mulé, all’epoca direttore di “Panorama”, declinò la proposta di un giornalista freelance, Gianpiero Casagni, di pubblicare un articolo riguardante i rapporti tra Montante e Vincenzo Arnone, figlio del boss mafioso di Serradifalco Paolino Arnone, e in particolare la notizia che nel 1980 entrambi gli Arnone parteciparono come testimoni di nozze al matrimonio di Montante.
Chiunque conosca la linea editoriale di “Panorama” (soprattutto dell’epoca) non sarà sorpreso della decisione di Mulé di non pubblicare un articolo dal taglio giustizialista, soprattutto se si considerano altri importanti elementi. Primo, in quel periodo Montante era unanimemente riconosciuto come un paladino antimafia, elogiato da innumerevoli rappresentanti delle istituzioni (da ministri a magistrati) e da tutti gli organi di informazione (l’inchiesta a suo carico emergerà solo successivamente, nel febbraio 2015). Secondo: all’epoca la direzione investigativa antimafia e la direzione distrettuale antimafia di Caltanissetta, oltre a incensare Montante per la sua attività antimafia, avevano messo in guardia dal pericolo di azioni di delegittimazione nei confronti del presidente di Confindustria Sicilia portate avanti «attraverso il metodo della diffamazione e del discredito mediatico». Terzo: la proposta di Casagni era stata anticipata su Facebook a Mulé in una strana circostanza da Stefano Zammuto, giudice ad Agrigento, che trentacinque anni prima era stato compagno di classe di Mulé ma che con quest’ultimo non aveva poi intrattenuto più alcun rapporto. Quarto: l’articolo proposto da Casagni si basava su notizie che erano già state pubblicate su un altro periodico un mese prima. Quinto (ma questo si saprà solo dopo): Casagni aveva provato più volte a ottenere un incarico lavorativo proprio da Montante, senza però riuscirci.
Insomma, Mulé aveva tutte le ragioni del mondo per rifiutare di pubblicare l’articolo, che poi troverà spazio sulla rivista “Centonove” nell’aprile 2015, cioè solo dopo che la notizia dell’inchiesta su Montante sarà ufficiale. Il consiglio di disciplina dell’ordine dei giornalisti della Lombardia, che si è occupato del caso, ha inoltre smentito che alcuni mesi dopo Mulé abbia rivelato a Montante il nome di Casagni e il contenuto della sua proposta.
Nonostante ciò, e nonostante Mulé non sia mai stato ascoltato durante l’indagine e il processo, nelle motivazioni della condanna in primo grado a Montante, il gup di Caltanissetta, Graziella Luparello, chiama in causa l’ex direttore di “Panorama”, lanciandosi in una serie di pesanti valutazioni etico-morali. In un passaggio, ad esempio, il giudice definisce addirittura «assai poco onorevole» l’ingresso in politica di Mulé, dal momento che «è Mulé a dovere giustificare, sul piano dell’etica professionale, la scelta di tradire la fiducia di Casagni in favore di Montante».
Insomma, per il giudice «l’aspetto gravissimo della vicenda» va rintracciato «nella condotta dell’onorevole Mulé, il quale, anziché vagliare il materiale documentale messogli a disposizione dal collega giornalista e verificare la veridicità della notizia offertagli, optava per la soluzione della passiva supinazione ai piedi di Montante al quale “vendeva” Casagni a basso prezzo, in un pacchetto all inclusive che comprendeva anche il proprio ex compagno di classe Stefano Zammuto».
Non pago dell’eccentrico riferimento al «pacchetto all inclusive», il giudice conclude affermando che «evidentemente, Mulé aveva preferito, in un’ottica familistica, privilegiare la tutela delle buone relazioni con Montante, posto che, grazie a Linda Vancheri, assessore regionale alle Attività Produttive e fedelissima dello stesso Montante, il dott. Vitale, nipote di Mulé, aveva ottenuto un incarico nell’ufficio di Gabinetto della citata Vancheri».
Il problema è che il citato Vitale non è nipote di Mulé, bensì suo cognato, e che non si tratta di un giovane in cerca di incarichi pubblici, bensì di un funzionario che lavora alla Regione Sicilia dal 1989, dopo essere entrato con regolare concorso, e che riveste incarichi nei vari gabinetti assessoriali dal 2002, senza aver mai avuto bisogno di Montante. Ma questo è l’inconveniente di processare moralmente un imputato fantasma, affidandosi solo alle dichiarazioni dei testimoni e senza neppure voler ascoltare la sua versione dei fatti.
A questo particolare trattamento giudiziario, si è aggiunta la gogna mediatica e politica. Il 22 ottobre 2019 la commissione parlamentare antimafia presieduta dal grillino Nicola Morra, ormai trasformata in una sorta di tribunale etico, invita in un’audizione proprio Casagni, che in diretta streaming accusa nuovamente Mulé di aver censurato il suo articolo e di aver fatto il suo nome a Montante.
Di fronte all’ennesima ondata di fango, stavolta sparsa in sede istituzionale, Mulé è costretto a chiedere alla commissione di essere audito. Il giorno prima di essere ascoltato, il 13 novembre 2019, i passaggi delle motivazioni della sentenza Montante che riguardano l’ex direttore di Panorama vengono pubblicati in bella evidenza sul sito del quotidiano “La Repubblica”, nientedimeno che su un blog denominato «Mafie».
In commissione antimafia Mulé smentisce il racconto di Casagni, «viziato da falsità materiali e ideologiche», e sottolinea l’incredibile trattamento giudiziario di cui è stato vittima: «Mi sento esposto al fuoco di un cecchino».
«Nessun inquirente e nessun investigatore ha mai ritenuto di doversi rivolgere a me, in qualsiasi veste, per avere una qualunque delucidazione o per fugare un qualsiasi dubbio. Zero. Eppure nelle motivazioni della sentenza trovo, non solo abbondanti riferimenti alla mia persona in oltre cinquanta pagine, ma anche giudizi offensivi e diffamatori che mi riguardano».
«Che giustizia è – si chiede Mulé – quella che mette in dubbio la moralità di un soggetto totalmente estrano al processo senza neppure avvertire la necessità di chiedere la sua versione dei fatti?». Domanda che, a distanza di anni, attende ancora una risposta.