Per un attimo Matteo Salvini aveva sotterrato l’ascia di guerra: “Il candidato sindaco di Catania? Decidano i catanesi”. Poi, complice un’uscita infelice degli Autonomisti (“Vedrete che si ritira”), invoca il nome della Sudano e continua a ripetere come un mantra che la Lega merita di amministrare il Comune etneo per averlo salvato, nel 2019, da un de profundis finanziario senza precedenti. Anche stavolta, però, il segretario leghista rischia di non spuntarla. E a voler leggere in controluce le sue dichiarazioni, sia pure entusiastiche nei confronti della compagna di Sammartino (“Abbiamo messo a disposizione del centrodestra la proposta migliore, non ha la faccia di una che si ritira”), emerge il timore di non farcela. Contro la Meloni, che ha già commissionato un sondaggio su misura (per Razza?), ma anche contro Raffaele Lombardo, che dalle parti dell’Etna ha ancora una certa presa. Così quel “decidano i catanesi” diventa l’innesco di una resistenza destinata a fallire.
Neanche alle Regionali, per dire, i siciliani furono in grado di decidere il candidato alla presidenza. Fu Ignazio La Russa a ‘riscattare’ il colpo gobbo di Gianfranco Micciché e della stessa Lega e a selezionare il nome di Renato Schifani da una finta rosa offerta da Berlusconi. Finta perché Schifani non ne faceva parte. Mentre a Palermo, nell’ultima odissea, Lagalla fu il giusto compromesso per riequilibrare pesi e contrappesi di una coalizione che non riesce più a scegliere con logica né lucidità. Catania, come Palermo l’anno scorso, si è trasformato in un terreno di scontro che può andare incontro a due esiti: quello, assai improbabile, della spaccatura; e quello, assai più efficace, della convivenza forzata (che peraltro dovrebbe portare a un’ampia affermazione nelle urne).
Catania era e resta un capitolo sanguinoso per il centrodestra. E’ il suk di sfide, risentimenti e disfide che rischiano, alla lunga, di lacerare i rapporti costruiti negli anni ma soprattutto di abbattersi sull’azione amministrativa del sindaco che verrà: chiunque sia, dovrà usare il bilancino nella composizione della giunta, ma soprattutto sui provvedimenti da adottare. Ed è chiaro – lo è anche alla Regione – che tante iniziative parcellizzate non portano allo sviluppo, bensì a sterili contentini. Catania è il prolungamento della sfida romana fra Matteo Salvini e Giorgia Meloni: un paio di giorni fa, durante le comunicazioni della Premier in parlamento (alla vigilia del Consiglio d’Europa), il leader della Lega ritirò dall’aula di Montecitorio i ministri del suo partito per fare un dispetto a Giorgia, che non l’aveva calcolato di striscio in tema di nomine. Salvini, a Catania, potrebbe accettare di fare da comparsa solo in cambio di qualche ricca contropartita. Ma avverte: “Per le regionali avevamo un candidato governatore (Minardo, ndr) e per tenere il centrodestra unito abbiano fatto un passo indietro. In altre città che vanno al voto al maggio per tenere la coalizione unita abbiamo fatto un passo indietro. Laddove non abbiamo candidati sindaci della Lega all’altezza non chiediamo nulla”.
E comunque non giocherà da solo. Perché l’altro campo di battaglia è occupato da Raffaele Lombardo e Luca Sammartino: i due non si sopportano. Gli Autonomisti si erano federati con il Carroccio durante la reggenza di Nino Minardo, ottimo amico dell’ex governatore di Grammichele; ma i rapporti si sono interrotti alla vigilia della Politiche, per la mancata candidatura di Lombardo all’uninominale (poi mascherata da rinuncia). Un distacco sancito anche da alcune dichiarazioni degli ultimi giorni: “Salvini ha sottoscritto un patto federativo con il Mpa – ha detto di recente il leader autonomista in un’intervista a Live Sicilia – che io per serietà non pubblicizzo, mi sono limitato a dire che Salvini forse quel patto, un documento di più pagine, lo ha firmato senza leggerlo perché se lo pubblicassi, francamente, ci si renderebbe conto che il patto è stato ampiamente violato”.
Il conto più salato, però, lo paga Luca Sammartino, trascinato in questa contrapposizione fino alle estreme conseguenze (cioè il fastidio di Schifani): “Quella di Valeria Sudano – ha insistito Lombardo – non è una candidatura politica”, ma una scelta che ha “bypassato il tavolo programmatico” con un “gruppo umano che ha occupato un partito politico” passato in “Udc, Articolo 4, Partito democratico e Italia viva” e che ha “sfiorato Forza Italia prima dell’approdo alla Lega”. Un’accusa di trasformismo che farebbe crollare chiunque, ma non la candidata in pectore. Non ancora (nonostante gli Autonomisti abbiano provato a farlo credere con un comunicato stampa, peggiorando le cose). E tanto meno il vicepresidente della Regione, fresco di Opa sul Carroccio siciliano e di un ottimo rapporto con Salvini, che ne conosce le capacità elettorali: 20 mila preferenze all’ultimo giro. Sammartino, uno che solitamente è abituato a far parlare i fatti (e centellina gli interventi sui giornali), non ha alcuna intenzione di recitare la parte dell’agnello sacrificale.
Ma lo scontro catanese imperversa anche all’interno di Fratelli d’Italia, come dimostra il ballottaggio fra Ruggero Razza e l’ex assessore Sergio Parisi (quello che Meloni starebbe valutando con più attenzione). Il primo espressione della corrente musumeciana; il secondo gradito a Salvo Pogliese e ai patrioti della prima ora, che hanno accettato a denti stretti l’adesione di Diventerà Bellissima alla vigilia della campagna elettorale per le Regionali. E che, come la maggior parte degli alleati, non vedono di buon occhio la presenza in prima fila dell’avvocato Razza, di per sé figura divisiva. Ma sul crinale della tensione va inserito anche il rapporto fra lo stesso Pogliese e Manlio Messina, che nel frattempo sta tentando la scalata a FdI dalla Capitale, contando sulla benevolenza del cognato d’Italia: il ministro Lollobrigida. Il Balilla, in questi giorni, ha fatto fuoco e fiamme per rivendicare la candidatura per il suo partito. E potrebbe essere il nome a sorpresa, se servirà a spazzare via questo clima da regolamento di conti che si respira nella destra catanese.
L’ex assessore al Turismo, la cui gestione adamantina è da dimostrare (alcune procure indagano su Cannes e sulla gestione dei fondi del programma SeeSicily), non piace a tutti. Anzi. Ma avrebbe la legittimazione dei piani alti e, come ormai noto, è impensabile che all’interno di Fratelli d’Italia nasca una fronda che si ribelli alle ingerenze romane. Basti pensare a cosa accaduto per la scelta degli ultimi due assessori della giunta Schifani: neppure i “trombati” dell’ultima ora ebbero il coraggio di allestire un altarino di protesta dopo uno scippo intollerabile (che portò in squadra i deputati non eletti Elena Pagana e Francesco Scarpinato). Figurarsi se accadrà adesso, con tutta la coalizione (compreso il presidente Schifani) che attende solo le tue mosse. Meloni pronuncerà l’ultima parola dopo aver dato un’occhiata al sondaggio commissionato all’uopo. L’importante è annettere nuove terre.
Ha altri obiettivi Forza Italia. Dove lo scontro fra Schifani e Micciché è stato silenziato dopo il passo di lato dell’ex coordinatore per consentire l’instaurazione di un nuovo gruppo di potere ai vertici del partito. C’erano in ballo (pure) le liste nel comune etneo. Adesso le compilerà Schifani, per il tramite di Marcello Caruso. L’obiettivo del presidente della Regione, che scende in campo da attore protagonista, è quello di tenere unita la baracca, e va bene; ma anche e soprattutto di garantire a FI un consenso in doppia cifra, per scrollarsi di dosso l’ombra insidiosa del nemico. E dimostrare ai nostalgici, e anche al Cav., che i berluscones hanno ancora diritto di cittadinanza. Il paracadute comunque è pronto: se Forza Italia andrà bene sarà merito di Schifani, se le cose andranno male sarà colpa di Caruso.
Catania, però, si sta dimostrando una questione indigesta anche per il centrosinistra. Che forse non avrebbe vinto comunque, ma in avvio di campagna elettorale – dopo l’umiliazione patita dalla mozione Bonaccini in provincia – ha visto “sganciarsi” dal Pd un certo Enzo Bianco, protagonista di una corsa in solitaria. Da civico e col sostegno di Giancarlo Cancelleri, che pertanto toglierà voti anche ai Cinque Stelle (con cui non avrebbe potuto candidarsi). La melassa giallorossa, invece, è stata tradita sull’altare da Emiliano Abramo, il presidente della Comunità di Sant’Egidio dal volto troppo “moderato” (per reggere la guida di una coalizione progressista orientata a sinistra). Dovrà rifarsi con il docente Maurizio Caserta, che avrà come vice una grillina. Triste dirlo, ma sembra una partita persa in partenza. Nonostante le difficoltà e gli scollamenti degli avversari.