Per i suoi 50 anni Filippo Luna ha deciso di farsi un regalo: una regia, una regia tout court, non come quelle pur realizzate con successo finora ma per se stesso, unico attore in scena, interprete assoluto, stavolta invece lui soltanto in platea e “ora fai così” oppure “dillo in questa maniera” come immaginiamo faccia un regista durante le prove, due attrici, una palermitana e l’altra catanese nei ruoli di madre e figlia, per l’esordio drammaturgico di Annalisa Bianchini, avvocato della Sacra Rota. Altro non è concesso sapere, se ne parla ad ottobre, al debutto, a Palermo. Poi, come per ogni compleanno importante, “tondo”, di quelli con lo zero come seconda cifra, ne arrivano altri, di regali. Due glieli fa Roberto Andò: fuori concorso, alla Mostra del Cinema di Venezia, va in anteprima “Una storia senza nome” del cui cast fa parte; poi c’è “La tempesta” di Shakespeare, in “prima” il 7 dicembre al Biondo – prodotto dallo Stabile palermitano – in cui sarà Ariel (con Renato Carpentieri-Prospero e Vincenzo Pirrotta-Calibano), segue tournée.
Uno con un’agenda così dovrebbe camminare tre metri sopra il cielo ma lui invece se ne sta con i piedi ben piantati per terra. “Perché questo è comunque un mestiere fragile, in cui la fragilità personale e quella dell’artista si sommano. Mi fa un po’ paura, dopo trent’anni di carriera, quando i giovani colleghi che vengono a salutarmi o a complimentarsi in camerino mi danno del ‘lei’ o addirittura qualcuno mi chiama ‘maestro’. Credo che sappiano benissimo anche loro che in questo lavoro in fondo si naviga un po’ a vista, che a un momento di cosiddetto successo ne può sempre seguire un altro di delusioni, porte sbattute in faccia, precarietà economica, che sputi l’anima in un progetto in cui credi con tutto te stesso e magari la disillusione è acquattata dietro l’angolo. Ma io sono fatto così, se non credo in una proposta, se non mi abbandono, preferisco dire di no”.
Di “no” ne ha detti diversi, in vita sua, Filippo Luna. Già vent’anni fa, varcata la soglia dei solitamente bellissimi 30, dopo il diploma all’Inda e quasi dieci anni di carriera. “Ero a Roma, avevo sognato un mestiere vedendo da bambino in tv i grandi, da Gassman a Randone, alla Falk, avevo studiato per fare quel mestiere lì. Ma quei modelli non c’erano più, i meccanismi erano cambiati, bisognava entrare in giri salottieri nei quali io, abbastanza antipresenzialista, non sono mai entrato. E così ho detto stop per quasi tre anni, sono tornato, ho fatto altro per campare”. Poi il “no” detto allo Stabile – era direttore Pietro Carriglio – dopo sei, sette stagioni consecutive. “Far parte di una compagnia, vivere in una squadra ti insegna tantissime cose, non ho mai avuto la sensazione di essere un impiegato del palcoscenico, eppure sentivo il bisogno di aria nuova, di esperienze diverse”. Quei “no” hanno pure costruito la voce di un carattere poco propenso al compromesso. Lui risponde con una battuta rubata a Lina Sastri: “Non ho un cattivo carattere, ho un carattere”. “E questo, qualche volta, spaventa. Ma perché non dovrei dire le cose come le penso? Perché dovrei essere insincero, ipocrita? E comunque il rapporto affettivo coi colleghi, in scena o sul set, è sempre straordinario. Per cui, delle due l’una: o mi compatiscono o qualcuno si diverte a costruire leggende”. E confessa: “Ormai comunque mi arrabbio sempre meno, ho un distacco maggiore. Divento paonazzo solo quando mi sento umiliato, quando chi dovrebbe avere considerazione per questo mestiere non ne ha, quando devi ancora contrattare una paga per pochi spicci in più, quando mi dicono ‘tanto che ci vuole? sono poche battute, solo due paginette’”.
E invece è mestiere faticosissimo, quello in ci si deve reinventare ogni volta. “In questo momento sono stanco morto, ringrazio il cielo, per carità, ma non mi riposo da anni. Eppure sono come mio padre: quando andava a lavorare in campagna, non sentiva il tempo passare e così io, quando entro a teatro o sto sul set non avverto il passare delle ore. Mi sento molto… contadino”. Le radici, la famiglia, il suo essere “sanciusippìsi” (San Giuseppe Jato), Luna non se li scorda mai. “La famiglia ha accordato con il silenzio la mia scelta, la scelta di un lavoro che spesso è difficile considerare un lavoro che ti può dare garanzie, un silenzio che è stato comunque una presenza costante. E se sono quello che sono lo devo a loro, a mio padre, a mia madre, alle mie sorelle. E non c’è gioia più grande della festa che fanno nipoti e pronipoti quando a casa c’è ‘zio Filippo’, non c’è niente di più prezioso degli abbracci e dei baci di mia madre che oggi, forse per ragioni d’età, è più incline alle tenerezze. E’ stato un privilegio poter mangiare ogni giorno, fino a quando avevo vent’anni, il pane fatto in casa con il nostro grano. E lo è stato pure quando a 23, trasferitomi a Roma per lavoro, ho scoperto in un supermercato, ad occhi sbarrati per cinque minuti, che il prezzemolo esisteva anche dentro uno scatolino di cartone, surgelato”.