“La mafia sarà sconfitta da un esercito di maestre elementari”, ha scritto una volta Gesualdo Bufalino, e io, che da bambina prendevo tutto molto sul serio, ho subito pensato avesse ragione. So io com’ero determinata con i larghi occhiali di plastica colorata e i pantaloni di felpa che uscivano da sotto il grembiule, mentre, ricopiando dalla lavagna, trasferivo sulle righe del mio quadernone la Verità con la V maiuscola, e guai a non vederne il nobile cuore di roccia. Le ore dedicate alla mafia erano tra le mie preferite, con i toni epici, il fiorire di cronache sanguinose e non un grammo di retorica rimasto inesplorato; allora, stringendo la penna fino a farmi venire i calli sull’anulare, mettevo sulla pagina uno sguardo sull’età adulta che era più un giuramento per il futuro: onestà, rettitudine, incorruttibilità. Da grande, ho poi letto un articolo di Umberto Eco che, riportando parti di un compiaciuto e compiacente tema sul fascismo assegnato e scritto in epoca fascista, ricordava come da quel bambino grottescamente balilla fosse poi venuto fuori un perfetto antifascista – certe serietà funzionano a diritto, certe serietà funzionano a rovescio. Le ore passate a smontare la mafia mi pare abbiano funzionato a diritto: Bufalino aveva ragione, e chissà se, nascosto dentro quell’aforisma, c’era indirizzato un pensiero all’amico Leonardo Sciascia, lo scrittore con il quale la mafia siciliana è entrata nella Letteratura (quella sì, con la L maiuscola), così presentato da Italo Calvino ad Alberto Carocci nel 1954: «Ti accludo uno scritto d’un maestro elementare di Racalmuto che mi sembra molto impressionante».
Due anni dopo quella presentazione esce Le parrocchie di Regalpetra, storia della Sicilia fascista e postfascista, storia di missini, comunisti e democristiani, storia di zolfatari e salinari, ma soprattutto storia di bambini: il cuore del libro è un articolo, pubblicato l’anno prima su Nuovi Argomenti, intitolato “Cronache scolastiche”, denuncia di sfiducia nella scuola di massa che fallisce, in quel fantastico paesino dell’isola che somiglia a Racalmuto, per l’abbandono in cui versano i programmi e la solitudine in cui sono lasciati gli insegnanti. Ogni cosa è inadeguata a indicare la strada di un’autodeterminazione attraverso la libertà a ragazzi che la mattina vanno a scuola senza voglia, solo perché la “refezione” è il loro unico pasto, e il pomeriggio sono presi da una vita altrove, dai lavoretti e dalle famiglie che pensano per loro un futuro immobile e spento.
Le parrocchie di Regalpetra è il testo che ci ha fatto conoscere il pensiero di Leonardo Sciascia sulla scuola (attuale sempre, e di più nello sconcerto di questi mesi in cui assistiamo attoniti a balletti sconcertanti in cui ultimissima, sempre, viene l’istruzione). Oggi, però, grazie alla famiglia del professore Antonio Amato, all’epoca viceprovveditore scolastico di Agrigento, legato a Sciascia da amicizia e da uno stesso amore martellante per la missione scolastica, oltre al libro abbiamo un nuovo documento inedito: le annotazioni sui registri del maestro in servizio presso la scuola elementare “Macaluso” di Racalmuto. Amato ne era stato affascinato al punto da ricopiarle e lasciarle alla famiglia che le consegna a noi.
Nell’anno scolastico 1949/50, accingendosi a insegnare alla classe IV, Leonardo Sciascia annota (e sembra già un presagio regalpetriano): “Non è senza timore che inizio la mia opera di insegnante. La classe affidatami è numerosa, il che contribuisce ad accrescere il mio disagio. A questo primo brusco contatto, l’opera educativa a cui mi ritenevo, per esperienza libresca, preparato e che perciò vagheggiavo perfetta, mi si presenta alquanto scoraggiante e difficoltosa. Difficoltà di ordine umano, non ancora di ordine tecnico. Il materiale umano a disposizione della mia opera non è assolutamente ideale: ragazzi che vengono fuori da un ambiente inconcepibile, tagliato fuori da ogni sviluppo dove la conoscenza è soltanto superstiziosa o stramberia, lo studio ritenuto pressochè inutile (non fosse per quelle quattro parole da dover inviare a casa quando si è soldati o per quella licenza necessaria per arruolarsi). Senza dire dei bisogni economici che gravano in tale ambiente e di cui i bambini penosamente risentono. Qui occorrono molti anni ancora perché la scuola veramente sia scuola.”
Un anno dopo, nella classe diventata quinta, poco è cambiato: “Come nello scorso anno la deficienza capitale di questi ragazzi sta soprattutto nella lingua. Quale strumento ostico è per loro il linguaggio! Adoperano il dialetto con spontaneità, con precisione, con ricchezza di espressioni: e vorrei che, non dico la spontaneità, ma almeno la precisione toccasse un po’ alla lingua che faticosamente tento di formare in loro. Certe loro espressioni a volte mi sorprendono per la letterarietà. Uno scrive: I campi cominciano a verdicare. Mi chiedo dove avrà trovato quel verdicare tanto letterario. Ma il fatto è che lo ha trovato soltanto nella sua inesperienza della lingua in cui io li faccio scrivere e parlare: lo ha trovato proprio dove trova certe impossibili coniugazioni di verbi, certe strambe declinazioni di aggettivi.” La lingua e la scrittura sono l’unica salvezza, e questa desolata ma ferrea convinzione si riverserà nelle Parrocchie: “Ho tentato di raccontare qualcosa della vita di un paese che amo, e spero di aver dato il senso di quanto lontana sia questa vita dalla libertà e dalla giustizia, cioè dalla ragione. (…) Certo, un po’ di fede nelle cose scritte ce l’ho anche io (…): e questa è la sola giustificazione che avanzo per queste pagine.” Alla fine dell’anno, la speranza in ciò che l’avventura della scuola dell’obbligo potrà lasciare negli alunni è il vivido fuoco che non ha a che fare con l’erudizione ma con tutto il resto: “Qualche giorno ancora e questi ragazzi lasceranno per sempre la scuola – almeno la maggior parte, che non continuerà gli studi. – Non so che ricordo avrò lasciato in loro. Io ricorderò loro come i miei primi alunni. Forse non eccessivamente disciplinati, in gran parte senza voglia di studio – ma certamente vivi, liberi, inventivi. Mi auguro che nella vita possano e vogliano essere uomini egualmente liberi e sinceri.”
L’anno successivo, il maestro Sciascia ricomincia da una terza: classe nuova, bambini nuovi, genitori nuovi. Ma a Racalmuto-Regalpetra niente cambia: “Notevole e palese è il disinteresse delle famiglie: i genitori che ho fatto chiamare, per riferire loro sulla situazione dei loro figli, sembrano rassegnatissimi e impotenti, non mi promettono cure maggiori, attenzioni più pressanti. Invocano, o almeno mi autorizzano, alla “correzione manuale”: e ciò dimostra appieno in qual’ordine d’idee, in quali condizioni ambientali viene a malcapitare l’opera del maestro.” Di nuovo, la fuoriuscita dal dialetto è l’unica strada trasformativa: “L’insegnamento della lingua è il punto più scabroso della nostra scuola – dico della scuola dei nostri paesi, dove i ragazzi non leggono mai un giornale (e anche i loro padri), non vanno al cinematografo, non concepiscono che la lingua italiana possa essere strumento di espressione quotidiana.”
Leggendo queste righe penso alla nonna che mi ha tirata su, che per quarant’anni ha fatto la maestra, ai suoi occhi fiammeggianti ogni volta che qualcuno magnificava la potenza del dialetto e a come mi fulminava se per caso mi azzardavo a copiare qualche parola in siciliano rubata ai miei compagni di classe o di giochi. L’italiano, per lei, era il solo modo perché i venti, trenta paia d’occhi che la fissavano parlassero la stessa lingua sua, e la stessa lingua fra loro, e anche l’unico modo perché avessero, nitida, una possibilità di essere spostati dal punto di partenza, sociale e familiare.
Come scrive un registro di classe uno scrittore? Sciascia, è vero, è stato un maestro, e solo in questo senso concreto accettava di essere chiamato tale, sembrandogli insopportabile, melenso e pretestuoso il significato di “guida”. È stato testimone del suo tempo, anche se non accettava di chiamarsi “mafiologo” né di essere presentato come esperto di alcunché che non fossero le vicende umane, e in particolare le vicende umane della Sicilia d’Occidente. Sciascia è stato però soprattutto uno scrittore, e nel mezzo dell’anno scolastico 1955/56, ci regala un’inedita immagine letteraria: “Il mese di febbraio ha portato freddo intenso, e lunghe nevicate. Non ricordo di aver mai visto il paese sotto tanta neve. I ragazzi si sono un po’ divertiti con lo spettacolo della neve, hanno fatto giuochi inconsueti. Ma in effetti il tempo ha portato sofferenza per i più poveri, per quei ragazzi malvestiti e peggio nutriti. Per un paio di giorni non è stato possibile far scuola: nelle aule vaste ci si sentiva gelare; e poi non tutti i ragazzi potevano camminare nella neve, qualcuno porta scarpe di stoffa o vecchie scarpe scucite e dalle suole crepate.”
C’è una costante nel modo in cui si tratta la scuola degli ultimi decenni, ed è l’inadeguatezza, la diserzione rispetto all’idea di missione, di opportunità, la sarcastica sfiducia verso l’emancipazione che viene dal rigore, la convinzione che perdere tempo sui libri sia inutile e che, piuttosto, sia meglio fare qualcosa di immediatamente utile. Leggere Sciascia e sentire la fatica solitaria per proteggere le ore di scholé (che in greco significa ozio, riposo, ovvero esercizio della mente e dell’animo) dal destino della fatica fisica ci ricorda perché è nata la scuola, perché sono nati i banchi, le sedie, la lavagna, il senso di comunità e di uguaglianza.
Ci lascia, questa lettura, una decisa nostalgia per la scuola dei grandi, quella in cui il ragazzo Leonardo Sciascia si iscriveva all’istituto magistrale “IX maggio” di Caltanissetta, dove Vitaliano Brancati insegnava lettere, e lo ricorda come una visione: “Lo incontravamo qualche volta in compagnia di un noto antifascista, oggi deputato, su cui la questura riversava affettuose attenzioni. Avevamo nel cuore la Spagna, americani come Hemingway, Gobetti – e la presenza di uno scrittore come lui ci pareva, benché mai lo avvicinassimo, buona compagnia.”
Quel luogo, oggi fatto a pezzi, dove si possono incontrare idee di rivolta rispetto alla mafia e al fascismo (e magari riconoscerli molti anni dopo), o il fascino di una letteratura nuova, resta una piazza straordinaria, un laboratorio più o meno consapevole per raddrizzare il fato, immaginare per la propria vita qualcosa di diverso da quello che dice il proprio cognome, o il proprio paese. Come scrive Sciascia: “Tutto mi sembra affidato a un fragile gioco; qualcuno ha scoperto una carta, ed era per mio padre, per me, la buona; la carta che ci voleva. Tutto affidato alla carta che si scopre. Per secoli uomini e donne del mio sangue hanno faticato e sofferto, hanno visto il loro destino specchiarsi nei figli. Ma è tutto troppo fragile, gente del mio sangue può tornare alla miseria, tornare a vedere nei figli la sofferenza e il rancore. Finché l’ingiustizia sarà nel mondo, sempre, per tutti, ci sarà questo fragile gioco.”
Finché ci sarà la scuola, ci sarà un tentativo di resistenza al fragile gioco. Ecco perché, anche se ogni volta è più difficile, di nuovo la scuola resisterà a tutto, anche a una pandemia.
(questo articolo è stato pubblicato la scorsa estate su Il Foglio)