La fusione tra Ircac e Crias, per favorire l’accesso delle imprese siciliane al credito agevolato, è diventata realtà a giugno 2018, grazie a una norma inserita nel “collegato” alla Finanziaria approvato dall’Assemblea regionale. Solo nello scorso mese di febbraio, a distanza di quasi quattro anni, l’Irca – il nuovo Istituto Regionale Credito Agevolato – si è dotato di nuovo statuto, che a breve lo renderà pienamente operativo (con una dotazione finanziaria di 70 milioni di euro). E’ l’unico, timido passo avanti fatto registrare dalla Regione siciliana sul fronte “carrozzoni”. Le ultime vicende dell’Ast, l’azienda siciliana dei trasporti, hanno reso necessaria un’inchiesta della commissione Antimafia, ma soprattutto una riflessione approfondita sul funzionamento delle partecipate regionali che spesso diventano ricettacolo di favori e clientele. O un esercizio di stile – apro, chiudo, fondo – per dare fiato a un giro di amicizie e consulenze. Non è detto che sia così per tutte, ma nemmeno il contrario.
Tra le raccomandazioni fornite da Roma in occasione della firma dell’Accordo Stato-Regione, lo stesso che avrebbe consentito alla Sicilia di spalmare 1,7 miliardi di disavanzo in dieci anni, vennero inserite un paio di clausole improrogabili: la completa attuazione delle misure di razionalizzazione previste nel piano delle partecipazioni societarie e il completamento e la definitiva chiusura delle procedure di liquidazione coatta delle società partecipate e degli enti in via di dismissione. L’unico vanto dell’assessore Armao, ieri a colloquio con ‘La Sicilia’, è invece la liquidazione della Cape, la società (partecipata al 49% della Regione) che gestiva l’omonimo fondo d’investimento di private equity. Stop. Dopo il report estivo del deputato dei Cinque Stelle, Luigi Sunseri, e l’approfondimento di Buttanissima sugli sprechi delle partecipate, il telefono del cronista fu inondato di telefonate, da parte di diversi interlocutori, per far capire che il processo di risanamento delle partecipate fosse a buon punto. Ma sono trascorsi altri mesi. E ancora non si muove foglia.
Persino Sicilia Patrimonio Immobiliare, che è rimasta impantanata per anni negli affari opachi di un noto faccendiere di Pinerolo, e che ha visto partire per la tangente (verso destinazioni offshore) un centinaio di milioni per la realizzazione di un censimento immobiliare fantasma, non ha ancora chiuso bottega (avrebbe dovuto farlo entro il 30 giugno 2021). La liquidazione, secondo Armao, è legata a un parere dell’Avvocatura dello Stato. Non hanno chiuso nemmeno l’Espi (Ente Siciliano Promozione Industriale), tanto meno l’Ems (l’ente minerario), i cui faldoni giacciono presso l’Ufficio speciale per la chiusura delle liquidazioni. Molte società continuano a garantire trattamenti economici a consiglieri di sorveglianza, revisori dei conti, commissari liquidatori, pur specificando di non gravare sulle casse dell’amministrazione regionale.
Altre promesse dell’assessore responsabile della “vigilanza gestionale” sulle partecipate, sono andate deluse. Come l’idea, prospettata nel 2019, di fondere l’esperienza di Sicilia Digitale, oggi una carcassa malridotta, con quella della Società Interporti Siciliana e del Parco Scientifico Tecnologico. Della prima si sa molto, specie per le cronache amministrative e giudiziarie più recenti. Delle altre assai poco. Riguardo alla SIS, nata nel ’95 per la realizzazione di due interporti a Catania e Termini Imerese, circola ancora un intervento di Musumeci quando era all’opposizione. Sette anni fa. In cui l’attuale governatore spiegava che la gestione della Società Interporti “presenta zone d’ombra”. Eppure, nel volgere di qualche tempo, il suo governo l’avrebbe ricapitalizzata con un intervento da 2,5 milioni di euro. Ma anche in questo caso sono tante, troppe le vicende dubbie: a partire dai compensi dei vertici, passando per le nomine del direttore generale e dell’organismo di vigilanza, che non sarebbero approdate nell’assemblea degli azionisti. Per non parlare del doppio carpiato di un tirocinante, ritrovatosi in breve tempo responsabile per la trasparenza e la prevenzione della corruzione. Ora, senza colpo ferire e omettendo qualsiasi operazione trasparenza, Armao riporta in auge la fusione con Sicilia Digitale in nome “di una concentrazione fra gli asset del digitale e della logistica”. Sebbene le due esperienze rimangano fortemente segnate dai dubbi e dagli scandali.
Sicilia Digitale, che s’è salvata in corner dal fallimento grazie all’adozione di un nuovo piano di risanamento (l’avvocato Mario Bellavista è stato nominato amministratore), e al contributo dell’Ars da 12 milioni per ripianare un paio di contenziosi con gli ex soci privati di Accenture e Engineering, rimane al centro di alcune vicende poco chiare: persino l’ex amministratore unico Antonio Ingroia (già condannato a un anno e dieci mesi per peculato) è stato citato in giudizio dalla Corte dei Conti per danno erariale. Dovrà risarcire 310 mila euro. L’utilità di questa partecipata, poi, è al centro di un giallo irrisolvibile. Si occupa di alcuni servizi informatici e telematici (come la compilazione delle buste paga per i dipendenti regionali), ma da parte di Mamma Regione non becca più una commessa. Il personale non è adeguatamente formato per portare avanti, ad esempio, l’assistenza tecnica di cui oggi si occupano società esterne: a partire dal Formez, che sta raccogliendo le domande di partecipazione ai concorsi, passando per la Deloitte, che assiste i dipartimenti nell’adesione al Fesr, fondo europeo di sviluppo regionale. Persino in ottica Pnrr, Sicilia Digitale sa già di essere spacciata: la gestione dei servizi digitali sulla sanità, infatti, sarà prerogativa del Cefpas, l’alto centro di formazione che costituisce il braccio armato di Ruggero Razza.
Insomma, a che serve Sicilia Digitale? Probabilmente (solo) a offrire riparo a un centinaio di dipendenti, con rispettive famiglie, che si sono visti congelare più volte lo stipendio a causa dei contenziosi della società. E a mantenere in vita i servizi di base, dato che il fallimento avrebbe comportato l’impossibilità di creare un “carrozzone” con le stesse funzioni prima di cinque anni. Sarebbe toccato rivolgersi ancora all’esterno. Detto questo, non è chiaro se la fusione con la Società Interporti e con il Parco Scientifico Tecnologico si completerà. Né con quali costi, quali risparmi, quali giri di consulenze. Potrebbe occuparsene il prossimo governo della Regione, a cui finiranno in eredità parecchie magagne. Al netto, forse, di Riscossione Sicilia, che alla fine dello scorso anno è stata accorpata dall’Agenzia delle Entrate: il via libera è costato alla Regione 300 milioni di euro.
Un piccolo accenno merita l’Esa, definita da Musumeci “l’ultimo carrozzone della Prima repubblica”, che il governatore prima voleva sopprimere e poi ha salvato, piazzandoci alla guida un altro dei suoi fedelissimi. Anche se oggi il deputato dei Cinque Stelle, Giovanni Di Caro, lamenta che “il governo aveva promesso la stabilizzazione in un nuovo dipartimento dell’assessorato all’Agricoltura”, ma per i lavoratori “il contratto a tempo indeterminato, continua ad essere un miraggio. C’è il rischio drammatico che il loro impiego scenda sotto la soglia delle 179 giornate lavorative”. L’altra fusione a freddo architettata da Armao, che attende l’esito di “un contenzioso tributario per cui è già stata fissata l’udienza in Cassazione”, è quella fra Sas e Resais. Mentre il vero investimento della Regione in questi quattro anni e mezzo è stato fatto sull’Irfis, il mini impero in mano all’avvocato Giacomo Gargano, coordinatore della segreteria tecnica di Musumeci, che gestisce un sacco di misure determinate dalla pandemia Covid (400 milioni di fondi circa). E che, in futuro, costituirà un ramo d’azienda per l’assistenza tecnica. Anche qui, come altrove, è forte e imponente la mano del governo, che conta di fare 80 assunzioni a tempo determinato per rafforzare l’organico.
La stessa autorità, però, viene meno in fase di controllo e vigilanza. L’attività amministrativa di molti di questi carrozzoni, come traspare dalle vicende dell’Ast, sfugge alle norme più elementari. Non solo nella predisposizione dei documenti contabili (che gravano a cascata sul bilancio consolidato della Regione), ma anche sui criteri di contenimento della spesa (secondo la Corte dei Conti “gli oneri per la retribuzione dei dipendenti delle società partecipate costituiscono una spesa pari a 272 milioni, vale a dire il 48% di quella relativa al personale regionale”). E soprattutto sulle pratiche clientelari che s’innescano in fase assunzionale, e che coinvolgono la politica da cima a fondo. Su quest’aspetto Musumeci ha fatto un passo indietro, spiegando che il malaffare esiste da sempre ma non lo riguarda. Mentre Armao, nel suo colloquio con ‘La Sicilia’, ha precisato che grazie ai concorsi si potrà evitare “il perpetuarsi di situazioni-ponte che non possono essere mantenute a regime”. Nessun accenno specifico alle società interinali, cooptate dalla politica per dare un lavoretto ai clientes e accumulare consenso. Né agli scandali più recenti, di fronte ai quali il governo non s’è sognato di fare mea culpa. Come fosse normale, per qualche malandrino, sfuggire ai controlli. E per la Regione, essere raggirata (e umiliata) così facilmente.