Il pranzo per farli (ri)conoscere ha suscitato un polverone dentro Forza Italia. Ma nessun pentimento da parte dei diretti interessati. Anzi Luigino Genovese, il padrone di casa, ha confermato la stima e l’affetto: “Non è la prima e non sarà l’ultima volta”. All’altro capo del tavolo – per parlare di Messina e, probabilmente, di Regionali – c’era il presidente dell’Ars, Gianfranco Micciché. Il quale coi Genovese (al plurale, stavolta), sembrava aver troncato ogni rapporto nel 2019, quando il figlio di Francantonio decise di uscire dal partito, che a 21 anni gli aveva garantito un seggio all’Assemblea regionale. Per fondare Ora Sicilia, che si candidava a essere la quarta gamba del centrodestra, nonché il tentativo di Razza e Musumeci di costruire un asse(t) con la Lega, che nel frattempo accresceva il suo prestigio anche nell’Isola.
L’esperimento, intrapreso grazie ai solidi rapporti fra Luigi e l’assessore alla Salute, si è sgonfiato nel giro di un anno e mezzo. In questo periodo niente assessorati, né menzioni d’onore. Così Genovese, il più ricco dell’Assemblea regionale nonostante la tenera età, si è iscritto al gruppo Misto. Per lui di occasioni ce ne saranno a bizzeffe (ha appena compiuto 26 anni). Ma c’è soprattutto un bagaglio di voti garantito dalla continuità familiare, nonostante i precedenti giudiziari del papà, ex segretario del Partito Democratico, finito dentro lo scandalo della formazione professionale ai tempi di Crocetta. Quello di Genovese jr all’Ars, nel 2017, non fu un ingresso in punta di piedi: il ragazzo ottenne oltre 17 mila preferenze, staccando (in provincia di Messina) l’attuale capogruppo Tommaso Calderone, e imponendosi, in termini numerici, anche su Giuseppe Milazzo e Gianfranco Miccichè, quelli con più consensi a Palermo, o su Marco Falcone, l’attuale assessore regionale alle Infrastrutture, che a Catania conquistò 12 mila voti.
Quello di Genovese fu un boom. Un capolavoro tattico e politico, di cui buona parte dei meriti, ovviamente, sono ascrivibili al padre. Ma Luigino è un pezzo di questo centrodestra (lacerato) che nessuno può permettersi di tralasciare. Anche se è chiaro che prima o poi la dynasty passerà all’incasso (basti pensare che un’altra esponente peloritana, Bernadette Grasso, ha fatto l’assessore per quasi tre anni nonostante le “sole” 6 mila preferenze). Messina è un territorio che fa gola a Forza Italia, dove il partito vorrebbe esprimere il futuro inquilino di palazzo Zanca. Per sconfiggere il candidato di Cateno De Luca, cioè Federico Basile (ex direttore generale del Comune), c’è bisogno dei voti dei Genovese. Ed è lì, probabilmente, che bisognerà pescare quelli decisivi per far eleggere Matilde Siracusano, il nome più in voga tra i forzisti (e, probabilmente, sostenuto anche dagli alleati). Sarebbe lecito per Genovese che qualcuno gli ricambiasse il favore a Palermo, magari aggiungendo al seggio – che difficilmente, in caso di candidatura, potrebbe sfuggirgli – un ruolo attivo nel prossimo governo. Magari sotto le insegne di FI e di Micciché: “Le persone e il rispetto tra le persone hanno la priorità sulle bandiere di partito”, glissa il figlio d’arte.
Un altro campione di preferenze rimasto ai margini dell’esecutivo e fuori da ogni incarico – al netto della presidenza della quinta commissione dell’Ars (Lavoro, Cultura e Famiglia) – è Luca Sammartino. Il golden boy della politica etnea, che alle ultime Regionali portò a casa poco meno di 33 mila preferenze. Doppiando il secondo classificato (Genovese, appunto). Fu eletto nel Partito Democratico, con un gap enorme sui rivali (l’attuale segretario Barbagallo, a Catania, si piazzò alle sue spalle con 14 mila voti). Ma l’unico che avrebbe voluto puntare sul figlio della direttrice sanitaria dell’Humanitas (un colosso della sanità privata) è stato fin qui Matteo Renzi. Dopo l’approdo a Italia Viva, Luca fu indicato come papabile candidato a palazzo d’Orleans durante la visita in città dell’ex premier. Le sue ambizioni, però, furono soffocate sul nascere da qualche inciampo giudiziario (Sammartino è coinvolto in un paio di processi per corruzione elettorale) e dalla debolezza di IV, che nei mesi scorsi ha assistito a un fuggi fuggi generale.
Così Mr. Preferenze ha cambiato Matteo, scegliendo Salvini. Il suo approdo alla Lega, che si è consumato nel giro di un’estate e senza bisogno di mediatori, ha aperto qualche crepa negli ingranaggi di potere del Carroccio siculo (che solo di recente sembra rimarginata). Ma a pesare sulla figura di Sammartino è anche il rapporto impossibile con Nello Musumeci, che durante la sua permanenza fra i renziani si augurò per lui “l’intervento di altri palazzi”. L’ingresso del giovane deputato nel perimetro della maggioranza non è bastato a fare chiarezza, né a smussare gli angoli. Né i toni. Per questo una candidatura a Palazzo d’Orleans di Sammartino, che dalla sua avrebbe l’arma del consenso, incontra tuttora molti ostacoli: coi salviniani della prima ora, col movimento del governatore, coi pubblici ministeri poco magnanimi. Uno scenario che sconsiglia precipitosi passi avanti.
Sammartino, che parla poco coi giornali e contesta (non di rado) l’operato del governo di centrodestra, è un raffinatissimo stratega. E alle ultime Amministrative, col simbolo del Quadrifoglio (e con liste, talvolta, in sostituzione a quelle della Lega) si è tolto discrete soddisfazioni. Ha confermato una buona presenza sul territorio. E il prossimo obiettivo è piazzare una bandierina a palazzo degli Elefanti, al Comune di Catania: dove la successione di Salvo Pogliese potrebbe essere appannaggio di Valeria Sudano, compagna di partito e nella vita. Vale la stessa regola di Genovese: si tratta di un patrimonio che il centrodestra ha strappato alla concorrenza e non può disperdere.
A proposito di “eletti” poco valorizzati dall’ultima esperienza di governo, un altro è Alessandro Aricò, capogruppo di Diventerà Bellissima da cinque anni, ma costretto a cedere lo scettro dell’assessorato alla Sanità al gemello diverso Ruggero Razza, che dalle urne non è nemmeno passato. Potrebbe rifarsi con la candidatura a sindaco di Palermo, sempre che Musumeci non gli preferisca la Varchi per accontentare la Meloni. Mentre c’è qualcuno che, pur raccogliendo voti a mani basse, come Giancarlo Cancelleri, ha preferito intraprendere un percorso di carriera lontano da Palermo, presso il Ministero alle Infrastrutture. La politica siciliana, grazie alle preferenze (e nonostante tutte le ombre di clientelismo), è la rappresentazione plastica di un sistema meritocratico che sovente, però, viene ignorato. Un sistema in cui i campioni del voto non toccano palla e, piuttosto, si decide di concentrare il potere nelle mani di pochi: i miracolati del listino, i paracadutati degli accordi politici “transfrontalieri” – come accaduto dentro Forza Italia con Armao o in Fratelli d’Italia con Messina – che non tengono conto realmente dell’espressione popolare, ma soltanto di interessi di bottega.