L’ultimo blitz è fallito. L’Assemblea regionale ha approvato il Ddl assunzioni, che sblocca i concorsi per dipendenti e dirigenti regionali (da qui al 2024 ci si aspetta l’assunzione di 6 mila persone, per questo Musumeci parla di “risultato storico”). Ma lo ha fatto stralciando le due norme-manifesto che la scorsa settimana avevano incendiato il dibattito e provocato l’inchiesta di Buttanissima. La prima, quella contra legem, si riferiva alla promozione del 50% dei dirigenti dalla terza fascia (ex funzionari direttivi) alla seconda, con incarichi di dirigenti generali, ovviamente senza concorso; l’altra, invece, riguardava l’assunzione per chiamata diretta – tecnicamente una “procedura selettiva comparativa” – di 100 dirigenti “esterni” alla Regione, nella misura dell’8% di quelli presenti nella dotazione organica. Sarebbero serviti a riempire gli uffici dei dipartimenti rimasti vuoti nonostante gli atti d’interpello degli assessori competenti. Il caso più significativo? Il dipartimento all’Acqua e ai Rifiuti, che gli scandali e le pressioni esercitate dal faccendiere Paolo Arata hanno contribuito a svuotare.
Musumeci, Armao e l’assessore Bernadette Grasso (Funzione pubblica) sono riusciti a far approvare l’articolo 6 del mini-collegato (di competenza dalla commissione Affari Istituzionali), ma non a imporsi sui commi 8 e 5, che infatti sono stati ritirati. Fino alla fine, però, il governo aveva dato filo da torcere. Nella seduta di mercoledì pomeriggio, a palazzo dei Normanni, aveva tentato la riscrittura del comma 8 sulla promozione dei dirigenti, in cui si stabiliva che alla prima e seconda fascia si potesse accedere tramite un concorso per titoli ed esami, aperto per la metà dei posti della dotazione organica; invece, la metà dei posti di seconda fascia, attraverso una graduatoria, sarebbero stati messi a bando per i dirigenti di terza. Trattandosi di una norma a rischio incostituzionalità, l’aula ha ribadito il proprio “no”. La giurisprudenza, negli ultimi anni, ha evidenziato palesi irregolarità: tutti, dai commissari di Stato al Tar, dai giudici del lavoro alla Corte d’appello, hanno ribadito che questa “manovra” – assegnare un incarico dirigenziale a un dirigente di terza fascia – non è consentita.
Dopo l’ennesima sospensione, anche l’assessore Grasso è tornata sui propri passi: “Ero convinta della riscrittura, ma per non appesantire il dibattito e per fare in modo che un tale argomento così delicato abbia la condivisione più ampia del parlamento, manteniamo lo stralcio del comma 8”. Sia il Pd che il Movimento 5 Stelle si erano messi di traverso e avevano fatto resistenza. La terza fascia, va da sé, è una zona franca delle pratiche clientelari. In Sicilia venne scoperta nel 2000, quando in una sola notte 2.700 funzionari (oggi la platea si è ristretta a poco meno di 1.200) furono “proclamati” dirigenti – di terza fascia – in deroga all’ordinamento nazionale. Che ne prevede due. La terza fascia è stata a lungo presidiata dagli amici dei politici, dai capi di gabinetto, e dai politici stessi, che per 19 anni si sono garantiti importanti privilegi, economici e di carriera.
La questione, però, non è chiusa. Finirà all’interno di un ddl di riforma più organico, in cui ci sarà spazio anche per l’assunzione, senza concorso, di 100 dirigenti “esterni”. Il comma 5 dell’articolo 6 è stato ritirato dal governo dopo numerose polemiche, soprattutto dai banchi del Partito Democratico. E da parte di Giuseppe Lupo, che dopo la seduta s’è preso il merito di aver “bloccato, grazie al dibattito parlamentare, il tentativo del governo Musumeci di affidare circa cento nuovi incarichi dirigenziali esterni, in seconda fascia, senza concorso. Sarebbero stati così mortificati migliaia di dipendenti regionali, sia dirigenti che del comparto, e tutti coloro che hanno diritto di partecipare ai concorsi per nuove assunzioni”. Per l’assunzione degli “esterni”, garantita dal decreto legislativo n. 165/2001, che la Regione si sarebbe impegnata a recepire, Musumeci aveva pensato a uno stanziamento risibile: circa 200 mila euro. Il che l’avrebbe resa astratta.
Ma in questa infinita sessione di Bilancio che si trascina da dicembre – a febbraio è stata approvata la Legge di Stabilità, un paio di settimane fa il “collegato” generale alla Finanziaria e adesso i collegati del collegato – le sorprese non finiscono mai. E i blitz neppure. Durante la seduta di mercoledì, infatti, è tornata a Sala d’Ercole, stavolta nelle vesti di emendamento aggiuntivo, la “ricognizione straordinaria della situazione immobiliare della Regione”, un articolo già accantonato durante la discussione al “collegato” generale. Furono i grillini a pretenderlo, dato che la Regione aveva già disposto, nel 2007, un censimento fantasma da 91 milioni, affidato a Ezio Bigotti e a Sicilia Patrimonio Immobiliare, che nessuno fin qui ha avuto la fortuna di vedere. Armao, dopo aver tentato di sorvolare sulla gravità della questione, aveva preso altro tempo, dicendo di aver trovato la password per aprire il server. Con la promessa che entro il 17 o 18 luglio i dati, finalmente, sarebbero stati svelati. Bugia. Nel frattempo, l’ipotesi di un’altra ricognizione a “pagamento” – da affidare al Dipartimento tecnico e al Genio Civile, e indifferibile per la Corte dei Conti – è stata nuovamente accantonata. Perché, data l’urgenza?
In aula Armao non ha fornito spiegazioni. Si è limitato a ritirare l’emendamento, senza concedere alcuna possibilità di replica ai Cinque Stelle. Il deputato Nuccio Di Paola avrebbe voluto discutere del sub-emendamento con cui si impegna il governo regionale a legare l’esito di una nuova ricognizione ai dati – alcuni restano funzionali a distanza di anni – contenuti nella prima. E senza oneri aggiuntivi per la Regione. Da ciò che è dato sapere, però, Armao non ha mai fornito alcun chiarimento nemmeno alla commissione Affari istituzionali (altra promessa, del 2 luglio, non mantenuta). Un papocchio di dimensioni enormi, che il vice-governatore non accenna a chiarire. E di cui sarà impossibile dare una lettura più approfondita fin quando i dati rimarranno sotto chiave.
Fra gli altri pasticci del “collegato” generale, c’era l’articolo 17. Si chiamava “modifica e abrogazione delle norme già esistenti” e aveva dentro il mondo, compresa una norma “Salva-Catania”, cioè la disposizione con cui si allarga l’uso del fondo di garanzia per gli enti locali anche al 2019. Si occupava, inoltre, del fondo da destinare ai taxi e al noleggio con conducente, del divieto di cumulo di due incarichi per i dipendenti regionali, dell’erogazione ai comuni di una somma per la predisposizione dei piani regolatori generali, del Corecom, il comitato regionale per la comunicazione. E vi evitiamo il resto. L’articolo, che lo stesso presidente dell’Ars Micciché non ha esitato a definire “una mini finanziaria”, ha fatto perdere un sacco di tempo e, dopo il ritiro da parte del governo, è stata sminuzzato in più parti. Alcune, presentate come emendamenti aggiuntivi, sono finiti nei collegati secondari. Approvati, stralciati, che importa. Di Catania non s’è più parlato.
All’inizio della discussione sul “collegato”, di quest’opera architettonica che con le dovute proporzioni si avvicina alla Sagrada Familia per tempi di realizzazione, si era anche affrontato l’argomento dell’Ast. Una delle aziende del trasporto pubblico, cui il governo avrebbe voluto destinare dieci milioni di euro per far viaggiare gratis studenti, anziani e forze dell’ordine. Proposta che qualcuno, evidentemente poco informato, avrebbe voluto estendere a Ionica Trasporti, un’azienda del Messinese, per il 49% in mano ad Antonello Montante. Emendamento poi ritirato. Il voto segreto sull’Ast, invece, fece soccombere Musumeci (il governo andò sotto per 27 voti a 26), riaprendo il dibattito sullo stato di salute di questa maggioranza. Che ancora una volta, e i “collegatini” ne sono una riprova, continua a improvvisare. Mettendo in secondo piano il futuro dei siciliani.