Succedono cose strane in Forza Italia, ma la più strana di tutte sarebbe apprendere che Pier Silvio Berlusconi, dopo aver lanciato l’ipotesi di modernizzare il partito, o rottamarlo (dipende dai punti di vista), esulti per una ipotetica alleanza fra Tajani e Schifani, alleanza propagandata in questi giorni con insistenza dal cerchio magico del presidente della Regione. Un’alleanza che non c’è e non c’è mai stata. Anzi, è proprio lungo il crinale della competizione fra Antonio e Renato che Forza Italia, in Sicilia, ha vissuto momenti di rara incertezza; che neppure l’affermazione alle Europee, viziata dall’aiuto determinante di Raffaele Lombardo e Totò Cuffaro può aver cancellato.

Quel 24 per cento ottenuto nelle urne non ha un padre. Ognuno può pensarla come vuole. A partire da Schifani, convinto di essere il depositario delle 122 mila preferenze ottenute da Edy Tamajo, sacrificato il giorno dopo sull’altare del partito (niente seggio europeo, tanto meno assessorato alla Salute); ma anche Tajani, dopo aver imposto la candidatura di Caterina Chinnici in qualità di capolista, non può pensare di essere l’artefice dell’impresa (giacché la Chinnici è arrivata terza e s’è spinta a Bruxelles solo grazie a un forfait). E non è certo merito di Marcello Caruso, la cui unica occupazione è dispensare note ai giornali per vantarsi – persino – della vecchia amicizia con Germanà, fresco segretario regionale della Lega. Gli unici a potersi ringalluzzire un pochino sarebbero Cuffaro e Lombardo, ma non ne hanno bisogno e provengono da altri mondi.

In questa fase di ubriacatura post-elettorale, una cosa è certa: non c’è mai stato alcun avvicinamento fra il segretario nazionale di FI, Tajani, e il governatore della Sicilia. Non fatevi trarre in inganno dalla conferenza stampa con cui hanno liquidato Tamajo, forzandolo a restare ciò che era prima. Il loro percorso, dalle morte del Cav., è stato colmo di incomprensioni. Di sfide, se vogliamo. Tajani s’è rifiutato di inserire Schifani nel novero dei vicesegretari nazionali, preferendogli il presidente della Calabria, Occhiuto; l’altro, per ripicca, ha deciso di boicottare tutte le iniziative e le terzine elettorali che includevano il nome di Caterina Chinnici, almeno fino all’ultima settimana pre-voto (quando ha innescato la retromarcia per evitare magre figure).

Tajani e Schifani vengono da parti opposte della barricata. Il gap si è palesato lo scorso autunno, a Taormina, durante il meeting del buongoverno organizzato da Marco Falcone: a Schifani, che sembrava un leale sostenitore dell’asse tra Forza Italia e la DC di Cuffaro, si contrappose lo stesso Tajani, giunto all’appuntamento con la Chinnici, per rimarcare una distanza da esperienze ibride e contaminate da precedenti giudiziari al limite dell’imbarazzo. Tra Forza Italia e Cuffaro non se ne fece nulla, e non è bastata l’intromissione di Noi Moderati, con Dell’Utri, sostenuto anche dai cuffariani (tutti voti per la lista) a scardinare la cortina di ferro: gli azzurri si sono “pappati” i voti della DC senza nemmeno dire grazie. “Il partito non è un taxi”.

Anche se l’ultimo scoglio è di una consistenza granitica. E riguarda le reciproche posizioni nei confronti del sindaco di Palermo, Roberto Lagalla. Tajani lo stima, tanto da averlo invitato, alla vigilia delle Europee, a firmare un manifesto per “l’alleanza delle forze civiche moderate per il futuro del Ppe” (e non è un segreto che stia pensando a lui come prossimo candidato governatore); Schifani lo detesta, tanto da fargli terra bruciata attorno. Sul Teatro Massimo (il sovrintendente Betta, sostenuto a spada tratta da Riccardo Muti, non gli va bene); sulla privatizzazione dell’aeroporto Falcone-Borsellino; sul piano di razionamento imposto dall’Amap (con la richiesta rancorosa di defenestrare l’amministratore unico). Gli ha imputato di non averlo invitato alla conferenza stampa del Festino di Santa Rosalia, che però organizzava la Curia.

Tajani e Schifani potranno condividere anche l’amore per Forza Italia, ma non quello per Lagalla. Né quello per la Chinnici, per Tamajo o per Falcone, di cui il governatore non vedeva l’ora di sbarazzarsi (gli encomi finali suonano peggio di una presa in giro). Che si ritrovino a cena per gettare le fondamenta della Forza Italia che verrà, è una prospettiva inverosimile, resa tale anche dalla puzza di stantio che la famiglia Berlusconi, passo dopo passo, intende eliminare.

Nel partito siciliano, inoltre, è sempre più puntuta la polemica di alcuni berluscones nei confronti del segretario nazionale: intanto per aver permesso che alla guida del partito rimanesse un coordinatore senza arte né parte, specializzato nell’accoglienza degli ospiti di Palazzo d’Orleans. Caruso è infatti il capo della segreteria particolare del presidente della Regione, oltre che suo uomo di fiducia e consigliere. “A Forza Italia non serve un ventriloquo, ma un leader”, è l’osservazione più gentile. La seconda critica muove dalle ultime operazioni legate al governo: la corrente vicina a Falcone sperava che l’addio all’assessore all’Economia, volato a Bruxelles, venisse compensato con l’arrivo di un uomo di partito. E invece Schifani è a un passo dalla nomina di un altro tecnico.

Non più Totò Sammartano, attuale capo di gabinetto; quanto Alessandro Dagnino, uomo in quota Armao (eccolo che ritorna) e autore del ricorso che costringerà la Corte dei Conti a ri-pronunciarsi sul giudizio di parifica del rendiconto 2021 (prima sospeso). Ma la scelta di un’entità esterna – simbolo di una Regione gestita come un feudo – è un’offesa alla classe dirigente di Forza Italia. Davvero il partito non è più in grado di esprimere un assessore? Di fatto non ne ha… Alla Sanità comanda (si fa per dire) il “fantasma” Giovanna Volo, che di certo non lo rappresenta; alle Attività produttive regna Tamajo, vicino a Cardinale e reduce da un’esperienza variegata, con punti di contatto a sinistra. Davvero non c’è un forzista della prima ora che sia in grado di assumere un incarico di governo?

Su questa grossa pecca – un limite grande quanto una casa – Tajani e Schifani hanno incrociato le rispettive parabole. Ma non è su un difetto di fabbrica che può innestarsi un’alleanza per il futuro. Specie se ai quartieri alti, da Marina a Pier Silvio, osservano le vicende con un po’ di puzza sotto il naso. “Al prossimo giro – ha detto l’Ad di Mediaset – io penso che ci potrebbe essere un’opportunità pazzesca di marketing parlando di politica. I moderati in Italia sono la maggioranza, oggi però non hanno qualcuno in cui si riconoscono veramente”. Né Tajani né tanto meno Schifani sono dei modelli di riferimento. Non hanno la freschezza e l’intraprendenza per affrontare le sfide della modernità. Per non finire subalterni alle arroganze dei patrioti. Peccato che non abbiano alcuna voglia di capirlo. Preferiscono lo scontro, meglio se fratricida.