Per favore, smettiamola con i luoghi comuni e con la facile ironia. A che vale ricordargli che prima di raggiungere le alte vette del governo se ne stava lì, a Mazara del Vallo a proporre come dj le canzoni di Gigi D’Alessio? Lui vi risponderà che comunque, da ministro della Giustizia, ha varato leggi, come la Spazzacorrotti, destinate a sconvolgere il codice penale, a crocifiggere il malaffare, a snidare la delinquenza che si nasconde tra le pieghe della politica e nelle stanze opache della burocrazia, negli affari dei poteri forti e nelle trame nascoste dei poteri criminali. E vi griderà in faccia uno slogan che va oltre “onestà-tà-tà”. Vi griderà: viva le manette, viva la galera. Sì, perché Alfonso Bonafede, quel simpatico Fofò che ride sempre, nella buona e nella cattiva sorte, non è solo un forcaiolo grillino; non è uno dei tanti giustizialisti che urlano il vaffa e agitano il cappio.
E’ il ministro che ha istituzionalizzato la gogna. Con il taglio sacrilego della prescrizione ha trasformato il processo in un rito infinito, durante il quale un imputato potrà stare appeso al palo finché morte non lo separi. E con l’introduzione del diabolico trojan, la spia più invasiva inventata dalla cultura sbirresca delle intercettazioni, ha fatto in modo che venissero consegnate ai magistrati – soprattutto a quelli più rampanti e spregiudicati – spezzoni di vita non solo degli inquisiti ma anche di persone che con l’indagine non hanno nulla a che fare. Il trojan è un’applicazione che può essere inoculata nel telefonino dell’indiziato, senza che lui se ne accorga ovviamente; e che ha la capacità di catturare le voci di chiunque si trovi a parlare nelle vicinanze dell’uomo “attenzionato” dalla procura. Voci di ogni genere e grado, anche e soprattutto innocenti, che non hanno alcuna valenza penale ma intanto finiscono lì, in un brogliaccio a disposizione dei pubblici ministeri, dei cancellieri, dei difensori, degli ufficiali di polizia giudiziaria e quindi anche dei giornali. Il trojan è l’organo dello sputtanamento. Che si attiva anche quando l’indiziato spegne il telefono e che dunque finisce per registrare ogni dialogo dell’indiziato, anche quello più intimo con la moglie o con l’amante. Ricordate il caso di Luca Palamara? Ricordate quante nefandezze vennero fuori dal trojan piazzato nel telefonino dell’uomo più potente dell’Associazione nazionale magistrati e del Csm, l’organo di autogoverno dei giudici? Nefandezze e trame di potere, accordi sottobanco e inconfessabili complicità. Il trojan inserito nel telefonino di Palamara ha finito per seppellire la credibilità del Consiglio superiore della magistratura e, se vogliamo, anche del sistema giudiziario. E’ diventato infatti difficile per chiunque credere nel sacro principio dell’autonomia dei giudici dopo avere letto i traffici che Palamara intramava con gli altri caporioni delle correnti togate per promuovere o emarginare – dentro e fuori il Palazzo dei Marescialli – il capo di una procura, il presidente di un Tribunale, un giudice della Cassazione o un presidente di Corte d’Appello. Altro che gogna.
Si dirà: che c’entra Bonafede con le scempiaggini di Palamara? Il trojan, pur con l’invasività che lo contraddistingue, ha fotografato una realtà. Al limite ha fatto crollare l’ultima impalcatura o, se volete, il tetto di un edificio – quello della giustizia italiana – vecchio, logoro, ammuffito, diroccato, traballante. Che il ministro Bonafede, in oltre due anni di presenza rumorosa al vertice del palazzo cinquecentesco di via Arenula, ha comunque lasciato tale e quale. Oggi, vigilia di un difficilissimo passaggio parlamentare, il Guardasigilli promette mare e monti: sedicimila assunzioni, riforme mirabolanti e risolutive, interventi decisi e muscolosi contro le lentezze e le storture dell’organizzazione giudiziaria. “La fede – sosteneva San Paolo – è sostanza di cose non viste e di cose sperate”. Ma i fatti dicono una sola cosa: nel gennaio del 2019, dopo il taglio della prescrizione ha promesso di rendere i processi più veloci e più giusti, ma dopo due anni la macchina infernale della giustizia, anche a causa del Covid, è più lenta di prima. Inghiotte vite e onorabilità. Umilia l’imputato. Mortifica lo stato di diritto. Affligge i carcerati. “La giustizia senza castigo è un’utopia, ma il castigo senza misericordia è crudeltà”, annotava cinque secoli fa San Tommaso d’Aquino. Un principio di sacra umanità cristiana che Bonafede stenta a fare suo.
E per avere contezza del baratro che si staglia dietro la politica giudiziaria del ministro Fofò basta citare due nomi che hanno infelicemente segnato le cronache di questi giorni. Due nomi contrapposti. Da un lato Calogero Mannino, l’ex ministro democristiano inchiodato per ventisette anni, dai cosiddetti magistrati coraggiosi, a un processo senza fine; e poi definitivamente assolto da tutte le accuse, anche le più infamanti. Dall’altro lato Nicola Gratteri, procuratore di Catanzaro, ultimo campione di quei pubblici ministeri che tanto piacciono al circo mediatico-giudiziario: magistrati di prima linea, mandati da Dio in terra per salvare l’umanità dalla mafia, dall’ndrangheta e da ogni altra contaminazione criminale. Non uomini semplici ma eroi che amano i grandi numeri, le maxi retate e i maxi processi; che non chiudono un’indagine se non c’è dentro un nome di spicco, un colletto bianco, un politico di primo piano. Un nome, insomma, che faccia volare l’inchiesta sulle ali delle prime pagine dei giornali, sulle luci dei talk-show, sui palcoscenici seducenti della popolarità.
Per favore, smettiamola con i luoghi comuni. Non insistete nel rinfacciare a Bonafede la sua confusione su che cosa è il dolo e che cosa è la colpa. Non mettetelo in difficoltà se in materia di mafia confonde il 41 bis con il 416 bis. Rinfacciategli piuttosto i silenzi su Mannino e Gratteri. La via crucis giudiziaria dell’ex ministro democristiano – incarcerato e incriminato per collusioni con la mafia dai magistrati d’assalto che a Palermo volevano riscrivere la storia d’Italia – avrebbe dovuto spingere il ministro a riflettere sugli effetti che può avere su un innocente un processo senza fine.
Con Mannino i giudici non avevano fretta perché la legge antimafia – quella voluta da Giovanni Falcone e portata in parlamento nel ’91 da Claudio Martelli, allora ministro di Giustizia – raddoppia già i tempi della prescrizione. Se tu vieni accusato di peculato, dopo dodici anni hai diritto alla prescrizione. Ma se il pm ti contesta l’aggravante mafiosa prevista dall’articolo 7 della legge Martelli gli anni necessari per la prescrizione automaticamente raddoppiano: ne serviranno 24. Lo stesso vale per l’abuso di ufficio: in via ordinaria il reato viene prescritto dopo cinque anni, ma con l’aggravante mafiosa di anni ne servono dieci. E così per ogni accusa, per ogni imputazione. Diventa difficile, se non impossibile, per un picciotto o un boss di mafia ottenere una sentenza in tempi ragionevoli. Ma un imputato che con la mafia non ha mai avuto nulla a che fare perché deve essere sottoposto a un identico calvario? La prescrizione, piaccia o no, è quello strumento giuridico – di alta civiltà giuridica – con il quale lo stato dichiara la propria impotenza: se i tribunali non riescono a garantire giustizia entro i termini fissati dalla legge, il processo automaticamente decade: l’imputato non viene né assolto né condannato; saluta i giudici e se ne torna a casa. Invece Bonafede, con la norma inserita nel decreto “Spazzacorrotti” ha voluto infierire e ha esteso il rigore della legge antimafia a tutti i cittadini che inciampano in una colpa o in un reato: superato il primo grado di giudizio, il tempo del processo non ha più un limite. L’imputato qualunque – alla stregua di Mannino, ma anche di Antonio Bassolino, di Mario Ciancio e di altri cento imputati eccellenti – potrà vivere una gogna lunga anche ventisette anni. Dovrà pagare per tutto quel tempo gli avvocati e potrà anche chiudere la propria attività perché non ci sarà una banca che gli concederà un mutuo o un finanziamento. Sarà la morte civile. Viva le manette. Viva la galera.
Ancora più grave il silenzio del ministro di Giustizia sulle dichiarazioni di Nicola Gratteri, il magistrato che di questi tempi anima maggiormente il piazzale degli eroi. Dopo l’ultima roboante operazione di polizia contro la ‘ndrangheta e con lo scalpo di Lorenzo Cesa, segretario nazionale dell’Udc, ancora in mano, il procuratore di Catanzaro si è fatto il consueto giro di giornali e tv per diffondere urbi et orbi le sue accuse agli indiziati, agli indagati, ai complici, ai fiancheggiatori e ai comprimari. Poi in una vampata di orgoglio e di amor proprio ha rilasciato una intervista a Giovanni Bianconi, del Corriere della Sera, durante la quale si è lasciato andare ad una risposta che avrebbe meritato da parte di Bonafede più di una attenzione e più di una riflessione. Bianconi gli chiede come mai molte delle sue prodigiose e strabilianti inchieste vengono puntualmente dimezzate se non addirittura azzerate dai giudici di merito. E Gratteri risponde: “Se altri giudici scarcerano nelle fasi successive non ci posso fare niente, ma credo che la storia spiegherà anche queste situazioni”. Bianconi sobbalza. Ci sono ragioni meno nobili? Ci sono prove nei cassetti che prima o poi verranno fuori? Il procuratore si ferma: “Non posso rispondere”, dice. E tra il dire e il non dire finisce l’allusione.
Di fronte a un messaggio, così potente e obliquo, inviato a mezzo stampa da Gratteri a tutti i giudici che dovranno valutare – serenamente, terziariamente – il suo operato di procuratore, il ministro Bonafede avrebbe dovuto quantomeno inviare gli ispettori a Catanzaro per vedere se veramente ci sono nei cassetti carte compromettenti. Avrebbe potuto raccordarsi con il procuratore generale della Cassazione o con il vice presidente del Csm. Così, tanto per capire.
Oppure avrebbe potuto porsi una domanda sull’insofferenza di certa magistratura inquirente nei confronti dei giudicanti. Diciamolo: l’onnipotenza porta spesso all’insofferenza. I precedenti non mancano: anche la procura di Palermo, negli anni di Gian Carlo Caselli e della sua antimafia chiodata, diede la caccia ai giudici del tribunale che mostravano perplessità sulla linea dura e pura dei pubblici ministeri; o a quelli, sbeffeggiati come parrucconi, che nelle Corti d’Assise o d’Appello stavano attenti alle forme, più che alla sostanza, convinti che la forma è la massima garanzia di una giustizia giusta. Nella caccia all’uomo fu coinvolto anche uno squadrone di pentiti. I quali, manco a dirlo, coglievano l’occasione per togliersi macigni dalle scarpe e mettere alla gogna chi, magari, li aveva mandati in galera con una sentenza di condanna. Ne fu vittima Pasquale Barreca, un giudice e un galantuomo di altri tempi, assolto dopo essere stato abbondantemente massacrato a Caltanissetta da un processo ingiusto e astioso. Ma la vittima più illustre fu Corrado Carnevale, presidente della prima sezione penale della Corte di Cassazione, un maestro del diritto che non aveva alcuna remora nell’annullare condanne prive di solide prove. Contro di lui, rigoroso giudice di legittimità, furono reclutati tra il 1993 e il ’94 pentiti buoni per tutte le accuse e sicofanti destinati a luminose carriere. Uno di questi, Salvatore Cancemi, arrivò a dichiarare che lui si recava a Roma, per aggiustare i processi in Cassazione, con le borse piene di piccioli. Fandonie. Che però paralizzarono il giudice Carnevale – i giustizialisti di allora per sfregiarlo lo chiamavano “ammazzasentenze” – con una gogna lunga e brutale, e con un processo per concorso esterno in associazione mafiosa che si trascinò per molti anni. Fino alla definita assoluzione perché ”il fatto non sussiste” e al reintegro, siamo già alla fine del 2007, nel suo ruolo di supremo giudice.
La frase torva di Gratteri sui collegi giudicanti rivela che all’interno dell’ordinamento giudiziario c’è una casta bramina che vuole imporre a tutti i costi la propria supremazia. Che non sopporta più la gerarchia dei controlli, che ama fare i processi in televisione e non nelle aule dei tribunali o delle corti d’appello. Una casta fanatica e aggressiva. Che ama il potere. Anche e soprattutto il potere di condizionare la politica, di orientarla, di dettarle l’agenda.
Il silenzio su Gratteri, al pari di quello su Mannino, rende automaticamente Bonafede complice di questo casta e di questo sistema. Il ministro, che è anche capo della delegazione grillina a Palazzo Chigi, indossa la grisaglia, il gilet e non dimentica mai, come il premier Giuseppe Conte, la pochette a quattro punte nel taschino della giacca. Ma il vestito serve speso a coprire o a nascondere le distanze. Per esempio l’abisso che separa un uomo di stato da un forcaiolo a cinque stelle; o un ministro della Repubblica da un manettaro. Ricordate quello che arrivò a dire un paio di anni fa durante una cerimonia ufficiale? “Il processo finisce con la condanna”. Il suo amico e collega Di Maio, dopo l’approvazione del reddito di cittadinanza, si è affacciato al balcone di Palazzo Chigi e ha annunciato al mondo che aveva abolito la povertà. Il simpatico Fofò, per non essere da meno, ha annunciato invece di avere abolito l’istituto dell’assoluzione. Tutti in galera. Un manettaro e nulla più.