Un robusto filo politico, sull’asse fra Roma e Palermo, unisce Ignazio La Russa e Renato Schifani. Entrambi siciliani, condividono l’esperienza da seconda carica dello Stato (il patriota occupa tuttora lo scranno di Palazzo Madama), e soprattutto, quando si impuntano sul potere la vogliono vinta a tutti i costi. Potremmo aggiungere – politicamente parlando – che l’uno è il padrino dell’altro: è stato La Russa, in qualità di proconsole della Meloni, a selezionare Schifani, sulla via del pensionamento, come candidato alla presidenza della Regione, dopo la stroncatura del Musumeci-bis. Ma l’attualità, e gli approfondimenti della stampa nazionale, li accomunano per altre vicende. Che implicano, in parte, una visione della politica quasi privatistica. O di comodo, fate voi.

Ignazio La Russa, da qualche settimana, rischia di inimicarsi persino il Capo dello Stato, Sergio Mattarella, perché preferisce tenere al Consiglio Superiore della Magistratura la consigliera laica Rosanna Natoli, di Paternò come lui, nonostante sia salita agli onori della ribalta per un incontro, il 3 novembre scorso, con la giudice Maria Fascetto Sivillo, che risulta sotto processo davanti alla sezione disciplinare del Csm. Il caso volle che la stessa Natoli, voluta da Fratelli d’Italia fra i 10 componenti laici che compongono l’organo di autogoverno della magistratura (presieduto proprio da Mattarella) fosse fra i sei membri della commissione cui spettava di valutare la condotta della giudice. Un caso di inopportunità – fatto e finito – che avrebbe dovuto indurre la diretta interessata a farsi da parte, così come preteso dal Presidente della Repubblica. E invece no: Natoli resta, potendo contare sull’appoggio “interessato” di La Russa, che a causa di questa sua impuntatura rischia di litigare persino con la Meloni. Ma senza la prodigiosa avvocatessa di Paternò, che assieme al presidente del Senato s’è fatta riprendere persino ai fornelli, la destra perderebbe la maggioranza del Csm: il rischio vale un cortocircuito istituzionale. Almeno per il momento.

Chi, invece, non ha segnalato alcuna anomalia riguardo la nomina di Alessandro Dagnino ad assessore all’Economia, in Sicilia, è l’opposizione. E nemmeno dalla maggioranza – al netto di un’irritazione strisciante ma non ancora manifesta – si sono levate voci contrarie alla nomina del 48enne avvocato che, secondo Il Fatto Quotidiano è ancora socio dello studio Schifani-Pinelli, affidato dal presidente della Regione al figlio Roberto. Lo stesso studio che ha difeso Aeroitalia, la compagnia di bandiera regionale, in una causa intentata da Ita Airways per le fattezze del logo (simile a quello della defunta Alitalia). Ma torniamo nei ranghi: “Un gruppo di potere o, se preferite, un rispettabilissimo clan di avvocati – scriveva qualche giorno fa Del Basto su questo giornale – ha piantato le tende nel cuore della Regione, ma la politica, impotente e servile, se ne sta a guardare”. Adesso la dimensione della vicenda ha varcato i confini regionali e, fermo restando l’indiscutibile professionalità di Alessandro Dagnino, Schifani potrebbe ritrovarsi con un bel grattacapo.

Sul suo sito web – si legge dalle colonne del Fatto Quotidiano – risulta che “nel 2008 lo studio legale Dagnino ha stipulato un accordo di alleanza con lo studio legale Pinelli-Schifani, per effetto del quale i due studi, pur mantenendo la loro individualità, hanno condiviso le rispettive risorse ed avviato congiuntamente alcuni progetti di sviluppo e di comunicazione, sotto l’egida Pinelli Schifani & Dagnino – studi legali”. “Nel suo curriculum – prosegue l’inchiesta giornalistica di Saul Caia – Dagnino scrive che la partnership sarebbe terminata nel 2014. Eppure nell’elenco della rivista Capital del 2021, in cui sono segnalati i “migliori avvocati e i migliori studi legali dei territori”, Nunzio Pinelli è citato in qualità di componente dello studio “Pinelli Schifani & Dagnino (Palermo)”.

La cosa che più stupisce di questo meccanismo impervio è che nessuno – da Palazzo d’Orleans – avverta l’opportunità istituzionale di  fornire qualche spiegazione all’opinione pubblica. Mentre la politica, per una forma di convivenza pacifica, ha deciso di soprassedere. Quelli che più di tutti avrebbero dovuto risentirsi sono dentro Forza Italia, cioè il partito che ha appena sganciato Falcone in Europa e che alle ultime elezioni ha ottenuto il 24% nelle urne (con l’aiutino di Cuffaro e Lombardo). I quattordici deputati con la casacca azzurra, di fronte all’imposizione dell’ennesimo “tecnico” (qual è Dagnino), avrebbero potuto protestare (o insorgere) per una così acclarata disistima nei loro confronti. Nessuno, però, l’ha fatto pubblicamente.

Anche se qualcosa si muove, come raccontato l’altro giorno da Repubblica (e mai smentito dal diretto interessato): Edy Tamajo, che ha già rinunciato al seggio di Bruxelles in favore della Chinnici – anche per riequilibrare i pesi nel partito fra Schifani e Tajani – ha i nervi tesi e avrebbe rinunciato a rappresentare il governatore nel vertice con il ministro Raffaele Fitto per parlare di Zes Unica. La Lantieri, addirittura, ha presentato una proposta di legge per reintrodurre il Reddito di cittadinanza provocando il moto d’indignazione di alcuni suoi colleghi (compreso Marcello Caruso, il factotum del governatore).

Piccoli ma eloquenti segnali di un malumore che potrebbe esplodere alla prima occasione utile: magari un voto in Assemblea regionale, dove a breve verrà discussa la manovra correttiva da 160 milioni. Si tratta del primo, vero test per Dagnino, che ha seguito l’iter del Ddl in commissione bilancio ancor prima del giuramento a Sala d’Ercole: e se i forzisti più incalliti, nonché i più offesi, si trasformassero in una banda di franchi tiratori per dare dimostrazione a Schifani di non essere un partito di Serie B? E’ ancora presto per dirlo, ma questa scelta – assunta al riparo da qualsiasi discussione collegiale – potrebbe avere degli esiti imprevedibile. Come sul fronte sanità, dove l’uscita polemica di Raffaele Lombardo e l’insussistenza dell’assessore Giovanna Volo, ha scosso dal torpore anche le anime più inerti alle prepotenze.

In Sicilia, però, la leva del governo resta in mano a Schifani, che potendo contare sui favori (anche) di La Russa, continua a esercitarla con relativa noncuranza rispetto alle prerogative altrui. Con un’aureola di immunità (più che d’impunità, quella è un esercizio tipico dei patrioti) posizionata sulla testa. Ma è possibile che questa Regione sia fondata sugli studi legali e non, piuttosto, sulle competenze politiche di chi dovrebbe rappresentare gli elettori? Che i vari Dagnino, Pinelli e Armao, rientrato di prepotenza nel “cerchio magico” del presidente dopo averlo contrastato alle ultime Regionali, possano fare il bello e il cattivo tempo, venendo insigniti di tutti gli onori, che le urne avevano riservato ad altri? Che nessuno osi porre la questione – morale e d’opportunità – senza essere interpellato direttamente? Domande che, forse, rimarranno inevase fino alla prossima crisi di governo.