Ma dove sono finiti i nostri eroi? Dove sono finiti quegli angeli della legalità che con un avviso di garanzia erano capaci di separare subito il bene dal male, di scoprire gli intrighi dei palazzi, di scoperchiare le pentole del malaffare, di mandare all’inferno l’esercito dei corrotti e dei corruttori? E dove sono finite le spade di fuoco con le quali inchiodavano alla croce dell’infamia Bettino Craxi e Arnaldo Forlani, Giulio Andreotti e Calogero Mannino, Silvio Berlusconi e Matteo Renzi? Da quando i grillini e i leghisti si sono impadroniti di tutti i balconi d’Italia, agli avanguardisti delle procure non è rimasto nemmeno uno spioncino dal quale affacciarsi per raccogliere l’applauso delle masse assetate di giustizia. La scena se la sono presa tutta loro: Luigi Di Maio e Matteo Salvini.
Ormai lo sanno pure le pietre: i due vice premier, già così bravi nell’impersonare il governo e nell’incarnare all’un tempo l’opposizione, si sono arrogati anche il diritto di amministrare direttamente la giustizia, di stabilire chi è colpevole e chi è innocente, di sentenziare su ciò che è il bene e il male per l’Italia e per gli italiani. E lo fanno nella maniera più spiccia: vanno nell’arena di Massimo Giletti o nel sinedrio messo su da Giovanni Floris e lì aspettano, tranquilli e gaudenti, il giudizio del popolo. E il popolo che fa? Li applaude a più non posso, un battimani ogni otto secondi. E applaudendo li assolve. Altro che i tempi lenti e ammorbati della procedura penale, delle scartoffie e degli ammuffiti tempi dei tribunali. Quando si è trovato di fronte a quel piccolo impiccio dei 49 milioni rubati dalla vecchia guardia del suo partito, il comandante in capo Matteo Salvini, ministro dell’Interno, ha evitato accuratamente di salire le scale della procura per fornire una spiegazione o per contrattare la rateizzazione delle somme che l’ufficio del pm voleva sequestrare. E ha pure evitato di bussare alla porta del magistrato inquirente, accompagnato come si usa dal proprio avvocato. Ha preferito piuttosto andare da Giletti dove, a conclusione di una intervista confidenziale durata quasi un’ora, se n’è tornato a casa sommerso dagli applausi. Un successo. Tanto che il procuratore di Genova – motu proprio, si fa per dire – ha preso atto della sentenza emessa dall’arena televisiva e ha concesso a Salvini ciò che nessun’altra procura aveva concesso prima: la possibilità di restituire le somme in 76 anni, un’eternità.
Si dirà: ma il procuratore forse è stato sin troppo clemente; oppure si potrebbe pensare, in un azzardo di metafora, che il palazzo di giustizia di Genova sia uno di quei porti delle nebbie dove si ammansisce il braccio spietato della legge e dove sfuma fino a perdersi ogni rigore. E allora, di fronte ai tanti dubbi, ci si conforta richiamando alla mente i nostri eroi, quelli che hanno troneggiato al tempo della Prima e della Seconda Repubblica, quelli che hanno sfidato capi di stato e capi di governo: insomma, gente con la schiena dritta, come Gian Carlo Caselli che ha trascinato in tribunale Giulio Andreotti, per sette volte presidente del Consiglio; o come Antonio Ingroia, che ha varcato la soglia di Palazzo Chigi per interrogare Silvio Berlusconi su torbidi affari di mafia; o come John Woodcock che non ha risparmiato né uomini né mezzi per rivoltare come un calzino il mondo di Matteo Renzi; o come Nino Di Matteo che per disvelare, ai puri e duri dell’universo, il mistero della Trattativa non ha esitato a sfidare il Quirinale e a intercettare persino Giorgio Napolitano; o come Piercamillo Davigo che dopo la stagione salvifica e manettara di Mani Pulite si è dedicato, con lo zelo e la scienza di un padre della Chiesa, alla costruzione di una terrificante teologia della repressione.
Chiamateli, se potete. Ma non li troverete facilmente. Perché da quando Salvini e Di Maio si sono impossessati del balcone del consenso e della popolarità, quelli che furono i nostri eroi sono diventati all’improvviso guerrieri disarmati, stretti in un angolo di silenzio e di irrilevanza, rinchiusi in un limbo di acquiescenza, prigionieri di memorie grandiose e di un presente che non promette più né onori né glorie, né medaglie né pennacchi.
Poveri eroi, verrebbe da dire. Il segno della loro decadenza si è appalesato nella maniera più illuminante il giorno in cui Salvini, raggiunto da un avviso di garanzia per le spacconate contro i migranti lasciati a marcire sulla nave Diciotti, ha messo in scena sui social un ordito teatrale degno di Mario Merola, quello de “o’ zappatore non s’a scorda a’ mamma”. Si è seduto nel suo ufficio ai piani alti del Viminale, si è piazzato davanti alla telecamera, ha aperto la busta gialla, ha preso il foglio inquisitorio inviatogli dal procuratore di Agrigento, lo ha letto con un sorriso beffardo e lo ha attaccato al muro come un trofeo di guerra. Followers e televisioni hanno provveduto in quattro e quattr’otto a moltiplicare gli applausi e a cingere il capo del ministro con la corona della persecuzione e del martirio. Un trionfo, per il Capitano del popolo. Ma una umiliazione per Luigi Patronaggio, il magistrato che aveva osato indagarlo.
Di fronte a tanto scempio chiunque, tra quelli che credono ancora nello stato di diritto e nella giustizia dei tribunali, si sarebbe aspettato un’immediata discesa in campo dei nostri eroi e una mobilitazione straordinaria “contro un vice premier che pretende di amministrare la giustizia con i suoi tweet”; anche un appello al solito Consiglio superiore della magistratura per spingerlo ad aprire un “procedimento a tutela” di un procuratore sbeffeggiato in maniera così arrogante e spocchiosa da un ministro dell’Interno che dovrebbe invece rispettare la legge, l’ordinamento e la sicurezza dei cittadini. Invece niente di tutto questo: gli eroi hanno preferito inconigliarsi nelle proprie stanze, dentro i palazzi di giustizia, e osservare un ossequioso minuto di silenzio.
Vigliaccheria? Assolutamente no. Costretti per anni a combattere in solitudine contro Silvio Berlusconi e Matteo Renzi, due spregiudicati della politica; e costretti soprattutto a scavare in lungo e in largo nei sotterranei del potere per portare a galla le verità inconfessabili su trame oscure e regie occulte, questi magistrati di prima linea cominciano legittimamente a mostrare alcuni segni di stanchezza. Pensate a Nino Di Matteo, l’eroe della famigerata trattativa tra la mafia e alcuni organi ovviamente deviati dello Stato: per oltre cinque anni ha seguito, giorno dopo giorno, un processo difficile e rognoso; ha battuto da nord a sud l’Italia intera per ricevere la cittadinanza onoraria conferitagli, per riconoscenza verso il suo impegno, da decine se non centinaia di comuni; ha scritto libri e ha rilasciato interviste di ogni genere e qualità, a giornali e televisioni, non ultima Al Jazira; ha sopportato il peso non indifferente di essere il magistrato più scortato d’Italia per via di una minaccia lanciatagli da Totò Riina, boss dei sanguinari corleonesi; ha partecipato senza mai stancarsi a innumerevoli convegni e dibattiti, molti dei quali promossi dai grillini; ebbene, chi potrebbe mai disconoscere il suo diritto alla stanchezza e, se vogliamo, anche a una certa delusione? Beppe Grillo, come si ricorderà, nell’estate del 2017, girando per comizi, non solo lo aveva additato come esempio ma lo aveva addirittura promosso sul campo come futuro ministro della Giustizia. Lui, l’eroe, aveva incassato la designazione senza fiatare ma quando leghisti e Cinque Stelle si sono insediati al governo della Repubblica, Grillo ha preferito assegnare il ministero di via Arenula ad Alfonso Bonafede che, a sua volta, si è ben guardato dall’inserire il magistrato palermitano nel suo cerchio magico.
Si deve probabilmente anche a queste amarezze – oltre, ovviamente, alle valutazioni degli altri pm – se la procura di Palermo, di cui Di Matteo è stato ed è la punta di diamante, ha deciso di non appellare l’assoluzione dell’ex ministro democristiano Nicola Mancino, trascinato per falsa testimonianza dentro il processo sulla Trattativa e assolto dalla Corte d’Assise con formula piena. Ma come, si sono chiesti gli osservatori più smaliziati, per cinque anni si è detto e si è scritto che un patto così scellerato non poteva attribuirsi solo a due ufficiali dei carabinieri e che bisognava guardare agli alti livelli decisionali e poi, quando nella rete inciampa un politico si lascia andare via così, come se niente fosse, senza nemmeno bussare una seconda volta alla porta dei misteri?
Molto più stanchi di Di Matteo appaiono gli altri due principi dalla spada bene affilata: Piercamillo Davigo, ora giudice di Cassazione, e John Woodcock, che dalla procura di Napoli ha cercato in tutti i modi di chiarire intrighi e collusioni riconducibili, a suo avviso, alla famiglia di Matteo Renzi, in quel tempo presidente del Consiglio. Ma, come si sa, la colossale indagine non riuscì a trafiggere il cuore del sistema renziano: si affumò, direbbero i palermitani. Non solo: dagli anfratti dei fascicoli sono venuti fuori dettagli e contraddizioni così evidenti da spingere il Csm ad avviare un procedimento per capire se l’ardimentoso magistrato napoletano sia inciampato in una stortura o, peggio, in qualche forzatura. Il caso vuole però che, nella commissione disciplinare di piazza Indipendenza, Woodcock ritrovi, seduto dalla parte dei giudicanti, l’altro eroe: il suo vecchio amico e sodale Piercamillo. Che, manco a dirlo, nei mesi precedenti alle elezioni politiche di marzo, aveva affermato e ripetuto in ogni trasmissione televisiva che mai e poi mai il Csm avrebbe dovuto perseguire i magistrati che conducevano inchieste sulla corruzione. Le sue parole venivano pronunciate nei giorni infuocati in cui Renzi e i renziani contestavano gli svarioni della procura di Napoli. E indirettamente andavano a coprire – a fiancheggiare, si stava per dire – l’operato di Woodcock. Cosa succederà ora che, ufficialmente e istituzionalmente, Davigo dovrà giudicare il suo amico John? Difficile fare una previsione. In ogni caso l’interesse per questa storia – o storiaccia, giudicate voi – comincia ormai a restringersi dentro la cerchia degli addetti ai lavori, dei quattro amici al bar. Al cosiddetto popolo non frega più niente né di Woodcock né di Renzi. Forse nemmeno della soluzione che, tra mille imbarazzi e difficoltà, troverà comunque l’intelligentissimo Davigo, da un quarto di secolo reverendissimo padre della chiesa giudiziaria.
Fino a sei mesi fa i nostri eroi si trovavano – volontariamente o meno, nessuno può stabilirlo – sulla stessa trincea di quel vasto fronte d’opposizione che comprendeva i Cinque Stelle, le antimafie chiodate, le frange più estreme della Lega e tutto quel giustizialismo che polemicamente ha sempre sguazzato e grufolato nella fanghiglia degli sputtanamenti e dell’antipolitica. Ora quel vasto fronte si trova al governo e comincia a non amare più né le crociate né le gogne. Anche perché i capintesta della Terza Repubblica sanno fare da sé, direttamente e senza mediazioni, anche i lavori sporchi. Sanno issare le forche e sanno come mascariare e impalare gli avversari: basta che si affaccino sul balcone del consenso – il balcone del popolo, appunto – e per i loro nemici, quei pochi che ancora non hanno piegato la schiena, la partita può considerarsi finita. Ricordate che cosa è successo poche sere fa, quando Di Maio si è seduto, spavaldo e sicuro, davanti a Giletti per una torrenziale e interminabile intervista? “Il popolo è stato felice di vederci sul balcone di Palazzo Chigi”, ha detto a un certo punto, sillabando con l’occhio avvetriolato ogni parola. “Prima da quel balcone si affacciavano gli aguzzini”. Ha chiamato i predecessori proprio così: aguzzini.
Altro che inquisizione. La tv che, dove ogni sera si affacciano puntuali e inesorabili i due vice premier, ha sostituito di colpo non solo i tribunali e le procure, ma anche tutti i guerrieri che, dalle procure, credevano di ribaltare il mondo.
Inutile girarci attorno, signori miei. Gli eroi sono stanchi, soprattutto per un motivo: perché non servono più, perché non contano più nulla.