“Ma come scrive una donna? A lassa e pigghia, lascia e piglia, lascia e piglia, interrotta venti volte, suona il telefono, si perde il filo, si ricomincia, suona il citofono, tutto daccapo, ora suonano alla porta, ma figurati vieni, non facevo proprio nulla, riprendo, aspetta, la pentola a pressione fischia, ora scrivo questo, un momento, suona di nuovo il telefono, accidenti, lo metto di là, ma intanto arrivano i giornali, un’occhiata, e la lavatrice ha finito, stacco la spina, riaccendo il bagno, stendo? No, non stendo, domani ci pensa Grazietta alla biancheria, rileggiamo, ben concentrata… Nonna, posso venire? Sì amore, anche subito. Tanto per oggi non si combina più niente. L’indomani: che dici, ce ne andiamo in campagna? Pronti, andiamo. Un altro giorno c’è una qualche spesetta, anche se riduco poi sempre le liste più lunghe a pane formaggio e sigarette, quando c’è questo siamo a posto. Suvvia da brava, rileggi e scrivi, e ricomincia il citofono la porta il telefono, un giorno ho contato dodici interruzioni in un’ora e diciamolo pure io ci stavo, mi lasciavo usare, perché in fondo tutte le scuse sono state buone, finiamola con gli alibi e il vittimismo, si fa di tutto pur di non scrivere di cose che dolgono.”
È un brano che ho letto centinaia di volte. Torno a questa pagina di Romanzo civile di Giuliana Saladino ogni volta che sbuffo, che sono esasperata, che voglio picchiare il computer, ogni volta che quello che ho scritto mi fa schifo ed è tutta colpa del citofono, del telefono, della biancheria, del corriere con i suoi pacchi e la portineria chiusa, ogni volta che è colpa degli altri perché, santa pazienza, fare il proprio lavoro sulla propria poltrona sarà anche il mestiere più bello ma anche il più disturbato – in tutti i sensi. Ogni volta che ho parlato con una donna che di mestiere scrive ed è venuto fuori quant’è comodo scrivere a casa, con il gatto sulle ginocchia, con il silenzio della solitudine, con le tisane e il bicchiere di franciacorta a portata di mano, ogni volta che ci siamo dette quant’eravamo privilegiate, poi una delle due si è fatta silenziosa e a quel punto, per rompere l’imbarazzo, io ho chiesto: hai presente quella pagina di Giuliana Saladino? Allora l’ho declamata a memoria e poi sono tornata a casa a cercarla, l’ho fotografata e gliel’ho inviata, e tutte le volte la mia interlocutrice non ci poteva credere che qualcuna avesse scritto parole tanto perfette.
Oggi Romanzo civile, questo libro per me così importante, è tornato in libreria. Lo ha ripubblicato Sellerio con una prefazione di Dacia Maraini che forse servirà a chi non la conosce a scoprire qualcosa in più di una giornalista d’inchiesta rigorosa e temprata che ha fatto la storia della cultura siciliana. C’era infatti a Palermo, dal dopoguerra in poi, una generazione di intellettuali i cui legami erano luogo ideale di produzione di conflitti, idee e battaglie. L’amicizia c’era, non secondaria ma ancillare: quando Saladino titola “civile” il suo romanzo, è perché il nutrimento sotterraneo di quei rapporti era l’universalità, l’aspirazione a dire non qualcosa di intimo ma di collettivo. Il libro prende le mosse da un rapporto privato e strettissimo con Calogero Roxas, Rocchi per gli amici, dalla sua malattia scoperta all’improvviso e dal suo decorso fulmineo, ma di quel rapporto sono evidenziati i fili aperti e le direzioni comunitarie, il legame politico innanzitutto. Roxas, nisseno, si era iscritto al PCI a vent’anni, Saladino a diciotto – stiamo parlando di una generazione per la quale la tessera era manifestazione esplicita di un’identità totale, la militanza una forma di esistenza assoluta, la politica non riguardava solo le riunioni e le logiche di partito o il momento del voto ma investiva ogni ambito dell’esistenza, compresi i legami familiari, l’amore, la passione, i matrimoni e le amicizie. Rocchi muore in pochi mesi e Giuliana Saladino si mette a scrivere, a lassa e pigghia, dopo tre anni: un libro che restituisce giustizia a un’amicizia piena di calore, dedizione, scontri e tenerezza. Romanzo civile è il ritratto di un uomo elegante, spericolato e scanzonato, che appena riceve la diagnosi della malattia che sarà la sua condanna di morte si accinge al commiato con ironia garbata, stoicismo e pudore. Saladino non voleva che fosse pubblicato, non aveva scritto un libro da consegnare al mondo ma un ricordo che avrebbero dovuto circolare tra amici, le stesse persone che insieme a lei avevano vissuto la perdita di Rocchi intuendo che con quella perdita per loro stessi iniziava un tramonto, una disgregazione. Eppure, in quel ricordo c’era così tanta letteratura che non poteva trattarsi solo di un memoriale o di un diario personale che pure diventava collettivo: Romanzo civile fu pubblicato postumo, dopo la morte di Giuliana Saladino nel 1999, per volontà delle figlie, diventando così non solo l’epigrafe di Rocchi ma anche quella dell’amica che ne aveva tenuto in vita la memoria, e di tutto un nucleo di intellettuali che per un certo periodo era stato il centro e il fuoco di Palermo.
Scrive Dacia Maraini che l’autrice è, a tratti, troppo poco autoindulgente. Rimprovera a sé stessa e agli amici di non aver riconosciuto per tempo gli orrori del socialismo sovietico e di aver sottovalutato le criticità della riforma agraria, di non aver capito davvero le ragioni dei contadini e di non aver dato abbastanza spazio all’immigrazione. Secondo Maraini c’è, in queste parole, “acerba severità” a fronte di un impegno costante contro la mafia, gli abusi edilizi e il danneggiamento continuo del paesaggio, e questa severità è forse inestirpabile da quella generazione in rivolta. Terra di rapina si intitola un altro libro di Saladino pubblicato come reportage nel 1977 ma oggi leggibile come qualcosa di più, come un’altra prova della grande capacità di narrazione di una scrittrice che per costruire storie non aveva bisogno di inventarle, poteva generarle grazie all’osservazione della propria terra e all’emersione quasi spontanea delle sue criticità. Quel libro diceva che chi rapina è figlio di una terra rapinatrice e rapinata di cui i banditi sono escrescenze e frutti e che gli intellettuali hanno il dovere di raccontare, mettere in fila i fatti e a nudo la verità. Caustica, Giuliana Saladino ha sempre messo la Sicilia e Palermo al centro di ogni sua interrogazione e nel farne scrittura non li ha ammorbiditi né trasfigurati. Il sud nelle sue pagine è aspro ma non senza speranza, è giudicato ma non condannato: è una scrittrice che vede in profondità, attraversando con lo sguardo le singole solitudini e il deserto in cui si muovono. Anche il suo giornalismo è senza maniera, diretto, preciso, e della sua esperienza in quel giornale che fu un episodio unico e mitico nella storia siciliana, scrive così: “Nel 1957, io mi inventavo e riciclavo giornalista. Cadevo nelle grinfie di un nevrotico abbarbicato al suo tavolo anche per sedici ore di fila, concentrato, incazzoso, scattante, balbettante per timidezza o per furore, dispensava rabbuffi gelidi o appallottolava e tirava in faccia le due cartelle, mi intimidiva da morire, sempre con un bicchiere di latte sul tavolo, fumando milioni di sigarette, finto distratto, finto arruffone, in realtà attentissimo vigile appassionato, Vittorio Nisticò, che dirigeva L’Ora destreggiandosi tra gli scogli e le secche del merdaio palermitano, che aggrediva la città, frugava nelle sue pieghe, denunciava o blandiva dando voce al lettore inerme e indifeso contro i potenti, coagulando attorno a sé tensioni e buona volontà…”
Oltre agli amici, alla scrittura, all’autrice stessa e a Rocchi cui è dedicato, c’è un’altra protagonista di Romanzo civile: la città. Il centro storico di Palermo inurbato e complesso, soggetto a troppe mutazioni e insieme a troppa staticità, idolatrato e calpestato, amato e non capito, è l’ossessione di una scrittrice che sogna inconfessabilmente di essere marchigiana o milanese per abbandonare l’isola senza rimpianti, senza zavorre: digressione paradossale di chi sa di non poter andarsene mai. Giuliana Saladino è inchiodata alla Sicilia dalla vita e dai legami, a Palermo è nata, a Palermo morirà – lì ha amato, ha sofferto, ha militato. Alla Sicilia ha dato la sua intelligenza vivida, il suo cervello instancabile e severo, la sua prosa efficace e singolare, il racconto dei suoi affetti. A un’isola che dà poco e chiede tutto lei ha riservato ogni parola, mischiando il proprio privato con i suoi problemi strutturali e connaturati.
Quando Rocchi muore, la Sicilia però non è ingrata. Lo ricorda come uomo, come velista, come politico, come editore. È allora che Giuliana si tira indietro, l’amico non ha più bisogno di lei, lei però ha ancora bisogno di lui, e invece è sola. Comincia un altro capitolo, di cui in questo libro vediamo appena il principio, che coincide con una fine: “A seguito della morte dell’amico ora dovevo cavarmela da me, era venuto a mancare, bruscamente levato via, quello specchio luminoso, quello che anziché rughe e capelli in disordine e occhi gonfi mi rimandava guizzi e bagliori del meglio di me, lo scherzo l’intelligenza la riflessione, scavalcarsi a vicenda nel corrodere e dissacrare, confrontarsi su un’analisi e su un’ipotesi, ritrovarsi dopo quindici giorni io con la sua posizione lui con la mia, mi hai convinto, no, mi hai convinto tu, il gusto della battuta feroce, della polemica su uomini e fatti, su eventi vecchi e nuovi, ingegneria politica e fantapolitica, dietrologia scatenata, darsi del pazzo a vicenda, speculazione attenta, una massa di elaborazione destinata all’autoconsumo, molto dire e pochissimo fare, stupore dello straniero di passaggio di fronte a tanto zampillare che si perdeva nelle sabbie, e anche questo spreco, diciamolo, è molto siciliano.”
(dal Foglio di sabato 22 gennaio)