“Con la scusa che anche il cibo è cultura, oggi tutta la cultura è diventata cibo. Nella considerazione pubblica i professori universitari sono stati sostituiti dagli chef, i convegni di studio dalle sagre del polipetto fritto, del pecorino coi vermi e minchiate di questo tipo”. Entra a gamba tesa il professor Ventimiglia nel dibattito sull’uso e l’abuso della parola “cultura”.
Giovanni Ventimiglia, professore ordinario di filosofia teoretica all’Università di Lucerna, Pro-Decano, Presidente dell’Aristotle College e della Fondazione Reginaldus di Lugano, è certo uno di quelli che può ben permettersi di usare la parola “cultura”. Partito da Palermo dopo il liceo, ha studiato all’Università Cattolica di Milano e Monaco di Baviera, proseguendo con una carriera universitaria brillantissima fra Italia e Svizzera: un concorso internazionale vinto a Lucerna tra sessantanove candidati di tutto il mondo, un finanziamento da mezzo milione di franchi ottenuto dopo selezione rigorosissima dal Fondo Nazionale Svizzero per la ricerca, diversi inviti da Visiting Professor a Oxford e Londra, un centinaio di pubblicazioni scientifiche in italiano, tedesco e inglese.
“Ricordo precisamente le circostanze della mia partenza da Palermo, ormai trentasei anni fa” – racconta il professore. “Oggi partono tutti, ma allora ero uno dei pochissimi. Ha presente ‘Nuovo Cinema Paradiso’ quando Alfredo dice al giovane Salvatore: ‘Vattini, chista è terra maligna’? Ecco andò pressappoco così: la mia professoressa di italiano, la mitica, temutissima ma bravissima professoressa Luisa Mirto mi convocò uno degli ultimi giorni di scuola, mi mise in mano un formulario quasi del tutto già compilato da lei e mi disse con tono severo (ma anche pieno di amore), di quelli che non ammettono repliche: ‘non ti voglio più vedere a Palermo. Firma e parti’: era il formulario di iscrizione all’Università Cattolica di Milano, che allora era considerata un’ottima università”.
Ora però Giovanni Ventimiglia ha deciso di tornare nella sua Palermo con un convegno internazionale, organizzato da lui stesso insieme a importantissimi colleghi, “interamente finanziato – ci tiene a dirlo – da università svizzere e in stretta collaborazione con Palermo Capitale italiana della Cultura 2018”, e racconta: “Quando ho letto che la mia Palermo era stata eletta Capitale Italiana della Cultura ho temuto un poco che l’evento potesse trasformarsi in una grande sagra della panella e della stigghiola, oppure in una kermesse radical chic, in cui improvvisazioni di arte contemporanea di dubbio gusto e valore, la facessero da padrone”. “Per fortuna si stanno rivelando solo timori” – aggiunge il professore – “tuttavia, quando mi vennero mesi fa, invece di intonare la tipica lamentazione preventiva e scettica, che il siciliano dentro me andava suggerendomi, chiedendosi sospettoso ‘che cosa farà Palermo?’, mi sono ritrovato improvvisamente a domandarmi, da svizzero: che cosa posso fare io per Palermo?”.
Nell’organizzazione del Convegno “Filosofie nel Mediterraneo”, spiega Ventimiglia, la “cultura” nel senso più proprio della parola è stata la sua unica preoccupazione: “Cultura viene da coltivare e la coltivazione presuppone pazienza e tempi lunghi, non è cosa che si può fare in poco tempo, come una cassata o quattro pezzi di iuta sparsi qua e là a scimmiottare artisti contemporanei più noti. Cultura per me significa anni e anni di studio e ricerca”. Così dice. E se ti permetti di fargli notare che forse la sua è una concezione un poco elitaria della cultura, il professore risponde scandendo le parole: “La cultura non è democratica. Il parere sull’Islam di un pizzaiolo, ad esempio, non ha lo stesso valore di uno specialista in materia, che ha passato decenni a studiarne la storia. Il pizzaiolo deve fare le pizze, lo studioso deve poter istruire la gente sull’argomento. Purtroppo internet e i nuovi media hanno dato diritto di parola e visibilità a qualunque ignorante”.
Quindi, spiega, al suo Convegno ha invitato solo i migliori studiosi del mondo. E così in effetti è, a guardare nomi e università di provenienza dei relatori: Sir Anthony Kenny (Oxford), Christof Rapp (Monaco di Baviera), Yossef Schwartz (Tel Aviv), Nadia German (Freiburg), Pasquale Porro (Sorbonne), Kevin Mulligan (Lugano, Ginevra), Anna Marmodoro (Oxford), Peter Simons (Dublin), Laurent Cesalli (Ginevra), Gyula Klima (Fordham University, New York), Patrizia Laspia (Palermo), Dimitri Gutas (Yale), Mélika Ouelbani (Tunisi), Manuel Garcia-Carpintero (Barcellona), Gilles Kepel (Paris, Lugano). “Si tratta – spiega – dei più importanti studiosi della ricezione di Aristotele nel pensiero musulmano, ebraico e cristiano e dei più importanti filosofi neo-aristotelici anglosassoni contemporanei”. Ma perché organizzare il convegno proprio in Sicilia e a Palermo? Risposta: “Perché proprio a Palermo si realizzò nel XII e XIII secolo l’incontro della filosofia pagana di Aristotele con le religioni islamica, ebraica e cristiana, e in particolare la traduzione delle opere di Aristotele dall’arabo, lingua in cui erano state precedentemente tradotte grazie ai musulmani, in latino”.
Ma è davvero solo questo il motivo della scelta di Palermo? A questo punto a Giovanni Ventimiglia, professore di filosofia in Svizzera, ma siciliano, anzi madonita doc, spuntano le lacrime agli occhi: “Lo vuole proprio sapere? Volevo fare un regalo alla mia Sicilia, perché ancora, dopo trentasei anni passati fuori, ne sono follemente innamorato”.