Anziché giocare a poker o a baccarà riuniti nell’aula della commissione Bilancio, ieri i deputati dell’Ars – tutti di maggioranza – hanno tirato fuori un’altra perla: riportare in auge il disegno di legge sul voto diretto nelle ex province. Quello che per poco, lo scorso febbraio, non faceva cadere il governo. La ritrovata unità, almeno a parole, del centrodestra, ha convinto i nostri impegnatissimi parlamentari a depositare il Ddl in commissione Affari istituzionali, ridotta a un luna park di basso rango (da lì è passato pure il testo sul riordino degli enti locali, prima di venire accantonato). Testo snello, sette articoli appena, per cancellare un decreto dello stesso Schifani che aveva fissato per il 15 dicembre le elezioni di secondo livello, in cui si esprimono solo sindaci e consiglieri comunali. Che evidentemente non vanno più bene perché – scommettiamo? – “non garantiscono la democrazia”.
Il tentativo è appropriarsi di trecento poltrone in più, facendo rientrare nel giro pure i “trombati” e usando come leva il voto popolare. Ovviamente i cittadini non vedono l’ora di tornare al voto per la ricomposizione di giunte e consigli provinciali e regalare una seconda chance a chi non ce l’ha fatta (sic!). Ma non sarà così facile: perché non è cambiato nulla da febbraio, quando lo stesso disegno di legge venne spazzato via all’articolo 1, con 40 voti favorevoli e 25 contrari. La maggioranza fu falcidiata dai franchi tiratori e lo stesso Schifani, scrissero in molti, fu sfiorato dall’idea di dimettersi. Oggi, grazie ai recenti vertici di maggioranza (ben tre) qualcuno si sarà convinto a sotterrare l’ascia di guerra e andare incontro a un iter che Cracolici, del Pd, ha subito definito una “buffonata”.
Una farsa lo è di certo. Le province sono commissariate ormai da dodici anni, tutti i tentativi di riportarle in vita sono abortiti (complice la Legge Delrio, che il parlamento nazionale non ha mai abrogato), eppure l’Ars vorrebbe cancellare l’epitaffio sulle lapide (“Non si faranno mai più”) in cinque giorni: tanti sono quelli concessi ai deputati per presentare gli emendamenti al testo incardinato ieri. Se tutto andrà come sperano, se ne tornerà a parlare martedì a Sala d’Ercole. La proposta è firmata dai deputati dei gruppi della maggioranza, compreso il Mpa di Lombardo, e prevede, fra le altre cose, il riconoscimento della rappresentanza di genere al 40% nelle giunte (così da strizzare l’occhio anche alle donne). Nelle province con meno di 400 mila abitanti sono previsti 25 consiglieri, in quelle sopra i 400 mila abitanti, invece, trenta. Le giunte saranno costituite da un terzo dei rappresentanti dei consigli, i due incarichi sono incompatibili. C’è un accenno anche al trattamento economico (simile ai pari grado nei comuni).
Ovviamente questa proposta, che interessa soltanto un pezzo dell’aula, scavalca in calendario tutte le altre. Ricompatta la “casta”, che però ha già perso abbastanza tempo ad abbozzarne altre; smentisce Schifani, che aveva già provveduto a pubblicare un decreto per convocare le elezioni di secondo livello (nel centrodestra si ragionava anche sull’eventualità di una lista unica); conferma scarsa preparazione in materia di diritto costituzionale; ma difficilmente vedrà la luce. Cracolici prevede scenari apocalittici: “Se non si va al voto” il 15 dicembre “andiamo incontro ad una grave violazione statutaria che può portare allo scioglimento dell’Ars”. “Dovesse passare questo provvedimento – aggiunge il presidente della commissione Antimafia – presenterò un ricorso per chiedere l’annullamento del voto: se infatti non c’è una legge nazionale che autorizza a votare in deroga alla Delrio, siamo tenuti a votare con il sistema di secondo livello. Diciamo la verità – conclude Cracolici – la vera preoccupazione di alcuni deputati regionali è che si apra una competizione ulteriore rispetto ai propri collegi elettorali. Mi auguro che questa buffonata venga fermata in tempo”.
Persino più duro Davide Faraone, capogruppo alla Camera di Italia Viva, che dopo essersi fiondato su Schifani (“è un incapace”), se la prende con le intuizioni del parlamento siciliano: “Qualcuno dovrebbe spiegarmi perché, in Sicilia, si possa procedere a una riforma e addirittura al voto dei presidenti delle Province nella primavera prossima, con il solo voto dell’Ars e senza un passaggio al Parlamento nazionale. Siamo nelle mani di dilettanti allo sbaraglio, che un giorno pensano una cosa, il giorno dopo il contrario, non tenendo conto minimamente del rispetto delle istituzioni e delle procedure costituzionali”. E aggiunge: “Se all’Ars dovesse essere approvata una riforma in tal senso e dovessero essere indette elezioni, sarebbe praticato un percorso profondamente illegittimo. Le nostre istituzioni territoriali sarebbero condannate al caos per i prossimi anni. Sarebbe da irresponsabili. Schifani e la maggioranza se ne dovranno assumere la responsabilità”.
Ovviamente, in caso di impugnativa da parte di Palazzo Chigi, sarebbe pronta a subentrare anche la Corte Costituzionale, che aveva già implorato la Regione, con la sentenza n.136 del 2023, a smetterla coi commissariamenti, ritenendo “illegittimo il continuo rinvio delle elezioni degli organi delle città metropolitane e dei Liberi consorzi comunali”. Ma la politica siciliana non vuole saperne: preferisce prolungare i commissariamenti (che saranno altri sei mesi a fronte di 12 anni?) pur di conquistarsi l’onore delle elezioni dirette. Che nessuno, però, è disposto a concedergli. Anche Marco Falcone, ex assessore al Bilancio ed europarlamentare di Forza Italia, tira il freno: “Quando il governo Meloni avrà abrogato la legge Delrio – confidiamo al più presto – si potrà andare al voto. Ma, fino ad allora andare avanti con i commissariamenti, o ancora peggio con normative a rischio impugnativa, risulterebbe solo una tattica dilatoria, oltre che rischiosa”.
Lo dicono e lo pensano tutti, ma i parlamentari dell’Ars sono di un’altra pasta. Capiscono le priorità della Sicilia e non temono di passare per giullari. Sfiderebbero pure le leggi della fisica per conquistarsi una poltrona in più. Un’altra.