L’ufficio di Presidenza della Camera dei Deputati, qualche giorno fa, ha approvato un aumento di 1.200 euro per i capigruppo di Montecitorio, equiparando il loro stipendio a quello dei presidenti di commissione. Poi è avvenuta una cosa strana, che ci riconduce dritti a casa nostra: non appena la notizia ha varcato le soglie delle agenzie di stampa, finendo per rimpolpare i populismi sopiti, gli stessi artefici di quell’aumento hanno preso le distanze. Da loro stessi, va da sé.
Sembra la storia di un film già visto sul red carpet di Palazzo dei Normanni, quando in un pomeriggio di profonda confusione, era febbraio scorso, i parlamentari di Sala d’Ercole – si approvava il Bilancio interno dell’Ars e in aula erano in pochi a prestarci attenzione – acconsentirono all’adeguamento Istat, previsto da un automatismo di legge del 2014, che permetteva ai loro stipendi di lievitare di 900 euro. Passando, in sostanza, da 11 a 12 mila euro al mese (fra indennità e diaria). Touché. La proposta non fece in tempo a finire sui giornali, che i deputati avevano già cominciato a stracciarsi le vesti. “Ma chi, noi?”. “E’ tutta colpa dell’Ufficio di presidenza”. “Già, ma nell’ufficio di presidenza c’è anche un grillino”. Qualcuno si era già premurato di presentare formale rinuncia; qualcun altro, col papocchio ancora fresco, cominciò a compilare una lista di enti e associazioni cui destinare il bonus. “I deputati regionali si alzano lo stipendio di 900 euro al mese. Tranne noi”, scrivevano quelli dei Cinque Stelle storpiando la realtà (che poi ci rinunci è un altro conto).
La vergogna e il rossore per l’ennesimo “schiaffo in faccia ai cittadini” raggiunsero il loro apice quando, da Roma, arrivò un richiamo informale da parte dello Stato maggiore di Fratelli d’Italia, il partito della premier, che mise in imbarazzo il presidente Galvagno, costringendolo a inventarsi una correzione, ed irritò altri. A partire da Gianfranco Micciché, che fu tra i pochissimi a tenere la barra dritta, a costo di apparire impopolare: “Non è la prima volta che Roma interferisce – disse l’allora commissario regionale di Forza Italia -. Siamo considerati lo schifo del Paese, qualsiasi cosa facciamo. Basta. Con l’indennità da parlamentare arrivo a fine mese e chiedo scusa a chi purtroppo non ci arriva. Ma non ho ville, non ho yacht e non rubo, si è montato un polverone su un automatismo. Avrei evitato di chiedere il voto segreto, purtroppo però in quest’aula ci sono colleghi che hanno paura della demagogia”.
Ne venne fuori un trambusto clamoroso. Addirittura il gruppo di De Luca preparò un emendamento per abrogare la norma, ma i deputati di Sud chiama Nord e Sicilia Vera non si presentarono in aula – sfilando il tesserino magnetico delle presenze – quando c’era da votare la proposta. “Per stanare l’accordo politico trasversale” e smascherare “il solito inciucio d’aula”, si giustificarono. Questo gioco del rimpiattino, un po’ banale e un po’ truce, è andato avanti fino a un paio di settimane fa, quando la deputazione siciliana ha fatto pace con la propria coscienza, stoppando l’automatismo Istat fino al termine della legislatura. Non un giorno in più. Anche se la comunicazione ha sopraffatto la realtà: si è cercato di far credere ai siciliani che l’aumento era stato cancellato. E invece no. Nient’affatto: l’aumento resta, e semplicemente non ce ne saranno altri. Come non ci saranno riduzioni.
Se qualcuno avesse trovato il coraggio di spiegare cos’ha generato l’adeguamento – parlando in maniera trasparente di inflazione, nessi e connessi – forse ci avrebbe guadagnato in credibilità. Ma rincuora il fatto che i pavidi, fra i politici, si trovino a tutte le latitudini. E non soltanto in Sicilia. Come emerge dal raffinato editoriale di Salvatore Merlo, su ‘Il Foglio’, all’indomani dell’ultimo peccatuccio di gola che si è concesso l’Ufficio di presidenza della Camera: “Pensano che sia giusto corrispondere una modesta gratifica in denaro a chi tra loro assume in Parlamento impegni più gravosi di lavoro, ma poiché non si capisce bene se siano stati appena cotti lessi, o in tegame a fuoco lento, col latte, come il baccalà alla vicentina, alla fine non hanno il coraggio di sostenere le buone ragioni della decisione – scrive Merlo -. Evidentemente persuasi d’essere dei mangiapane a tradimento, i nostri rappresentanti negli ultimi anni si sono tagliati prima lo stipendio, poi le pensioni e infine si sono tagliati essi stessi, non metaforicamente, riducendosi di numero a circa la metà”.
“Bisogna allora proprio immaginarsi questi onorevoli cuor di leone – continua il vicedirettore del ‘Foglio – che, presasi la testa fra le mani e superata la sorpresa che procura loro ogni volta il fatto che pesi tanto poco, iniziano freneticamente a dettare dichiarazioni di sconcerto contro la loro stessa decisione, spiegano che mai accetteranno quel denaro che pure si sono attribuiti, precisano che comunque si tratta di un aumento a costo zero ci mancherebbe, fanno addirittura sapere che essi poverini erano presenti ma si sono astenuti (maestra, il cane mi ha mangiato i compiti). Finché giunti al termine di questo balletto, al quale tutto arrideva, tranne un senso, ci siamo posti una terrificante domanda: se questi si vergognano dei loro stipendi, se non sanno difendere le loro scelte, se pensano di essere all’incirca degli inutili saprofiti, ecco, giunti loro per primi a un tale livello di autosfiducia, chi siamo noi per contraddirli?”.
Le cose, o ci fai perché le credi, o non le fai affatto. La retromarcia a tradimento è un esempio persino peggiore dei privilegi – tanti – che la politica si è concessa negli anni. Fino a farla diventare “casta” tra le più detestate del Paese. In materia pecuniaria esiste un confine molto labile fra chi ha tanti soldi e chi ne vorrebbe ancora: meritarseli. In Sicilia, dopo nove mesi di (questo) governo, è impossibile trovare una giustificazione non solo all’adeguamento Istat ma anche a tutto il resto: a partire dall’immobilismo dell’esecutivo e dell’Assemblea, che, al netto delle sessioni finanziarie, non sono riusciti ad approvare una sola legge. Di questa forma di parassitismo – occupare le poltrone in cambio di niente – qualcuno si pentirà mai?