Già si affilano i coltelli

La provocazione fumantina di Micciché e la replica piccata di Cuffaro inaugurano la settimana del vertice: venerdì prossimo, come richiesto dal Mpa di Raffaele Lombardo, il centrodestra torna a discutere in seduta plenaria dopo mesi. Sarà l’occasione per sancire – plasticamente – le divisioni del governo, o per metterci una pezza. Ma lo scambio a distanza fra l’ex presidente dell’Ars e il segretario nazionale della Democrazia Cristiana nasconde un malcontento strisciante, ormai divenuto palese, che trasforma l’esecutivo in un campo di battaglia dove ognuno fa da sé.

Sarà curioso, ad esempio, chiarire i contorni del rapporto fra Totò Cuffaro e Raffaele Lombardo: a Micciché, che lo accusava di controllare le sorti (e i voti) di Forza Italia, l’ex governatore di Raffadali ha ribattuto con l’accusa più temeraria: “E’ stato contagiato dalla ‘Lombardite acuta’”. Se le cantano come se facessero parte di schieramenti opposti, invece convivono sotto lo stesso tetto di una maggioranza che in due anni non ha battuto un colpo, non ha fatto una riforma, non ha risolto un’emergenza. E che tuttavia continua a litigare per le poltrone più allettanti: dalla sanità alle partecipate. L’unica cosa che i partiti del centrodestra sono riusciti a spartirsi senza arrivare alle mani, sono le mance: 80 milioni nell’ultima puntata di luglio, prima delle ferie estive, con un tesoretto destinato a ogni singolo parlamentare. Ma se, come dicono, non ci saranno altre prebende nella manovra-quater di ottobre, come farà questa coalizione sfilacciata a reggere?

Lombardo, oltre a non essersi mai preso con Cuffaro (da una ventina d’anni), è sul punto di rompere anche con Schifani. Sulla sanità la contrapposizione è stata durissima: prima sui criteri di scelta dei direttori generali (e sulla “rosa” da cui pescare); poi per la lottizzazione di direttori sanitari e amministrativi, dove il leader del Mpa ha pagato pegno, rimanendo a bocca asciutta. Pure sull’Ast si registra una certa freddezza, con Schifani che ha rimpiazzato il presidente dimissionario (Giammarva) con un tecnico di fiducia: il commercialista Alessandro Virgara. Prima che i due protagonisti scendano a patti venerdì prossimo, hanno mandato in avanscoperta le “seconde linee”, con tutto il rispetto per Micciché e Cuffaro. La loro singolar tenzone non è che una proiezione del duello rusticano di cui sopra, che si arricchisce di nuove mosse: ad esempio il passaggio dell’ex forzista nel gruppo parlamentare del Mpa (pur senza aver aderito, non ancora, al partito).

Micciché, dalle colonne dell’Identità, ha assestato uno schiaffo a Forza Italia, rivangando alcuni episodi che hanno preceduto le Europee. “Penso che Falcone abbia preso più voti puri di Tamajo, ne sono certo. Da quando Tajani ha vietato la candidatura a Cuffaro, lui gliel’ha giurata, per questo hanno fatto di tutto perché non fosse votata la Chinnici. La politica – ha proseguito Micciché – oggi è brutta: non si ragiona in termini di collaborazione, ma di “fregare il compagno”. Non mi riconosco più in questa Forza Italia. Oggi Forza Italia è un partito senza identità. Non si sa più chi lo comanda, sembra che Cuffaro decida tutto. Lo dico con grande onestà: se non è così, me lo dimostrino, e sarò pronto a ricredermi. Ma quello che vedo è che nulla si fa senza che Cuffaro dica la sua”.

In realtà Cuffaro ha sempre asserito che sono stati i suoi voti – quelli fatti convergere sul simbolo di Forza Italia grazie al sostegno del candidato di ‘Noi Moderati – a far scattare il secondo seggio per la Chinnici, anche se il motivo del contendere è un altro, assai più “raffinato”. “Io e la DC siamo amici leali del presidente della Regione, Renato Schifani, e della coalizione e la tattica della provocazione o, peggio ancora, quella di esercitare pressioni indebite non ci appartiene – ha detto Cuffaro – La mia idea della politica è cambiata da un pezzo, strano che Miccichè e company non se ne siano accorti. Credo che la politica sia più di chi pensa e di chi lavora che di chi comanda”.

Rimarcare l’amicizia con Schifani significa rimarcare una distanza con Micciché e con lo stesso Lombardo, che oggi potrebbero giocare lo stesso ruolo di Micciché due anni e mezzo fa, quando fu il presidente dell’Ars – allora plenipotenziario di Forza Italia in Sicilia – a porre il veto sulla ricandidatura del Pizzo Magico. Il problema è il tempismo: è  ancora troppo presto. E queste divisioni lasciano intravedere un unico orizzonte: l’implosione. Ci saranno, come ovvio, i tentativi di riconciliazione, e magari un bel comunicato congiunto, già da venerdì sera. Ma questi rancori che covano sotto la cenere rischiano di essere dannosi per un governo che, di fatto, ha già smesso di esistere. E che nel periodo della sua gestazione – ribadiamo – non ha prodotto una sola riforma, e ne ha viste abortire un paio col magheggio del ‘voto segreto’ (a partire dalle ex province).

Fratelli d’Italia, che dovrebbe ergersi ad arbitro di questa battaglia fratricida, in realtà assiste da spettatore. E bada al sodo: impossessarsi delle posizioni strategiche di sottogoverno grazie alla copertura di Ignazio La Russa, e preparare il terreno a una proposta irrinunciabile, da formulare agli alleati a tempo debito, per la prossima nomination a Palazzo d’Orleans: quella di Gaetano Galvagno. In questa lunga parentesi fra un’elezione e un’altra, in attesa della sessione finanziaria che scatenerà l’ennesima corsa alla diligenza, non succede praticamente nulla. Sembra che l’esperienza del governo Schifani sia terminata con le elezioni Europee, con la guerra di potere (travestita da conta elettorale) che ha restituito un quadro frastagliato, pur partendo dallo stesso simbolo: anche Lombardo ha corso a supporto di Forza Italia, per la Chinnici, eppure non aver ottenuto un riconoscimento del suo “peso” – ricordate la storia del secondo assessore? – rischia di far deragliare il treno.

La storiella del secondo assessore, per inciso, perderà consistenza in queste ore, giacché la stessa Forza Italia, nel paniere dell’Assemblea regionale, ha raschiato dal fondo del barile altri due transfughi: uno è l’ex capo della segreteria di Musumeci, Marco Intravaia (fuoriuscito di FdI); l’altro è l’ex deluchiano Alessandro De Leo, rimasto per qualche tempo nel limbo del gruppo misto. Gli azzurri sono il gruppo più numeroso all’Ars, con 14 parlamentari, anche se vantano un solo assessore: Edy Tamajo. Gli altri due nominati in quota FI sono espressione del feudo del governatore (Volo e Dagnino).

E’ questa l’altra questione su cui Schifani, con un po’ di sforzo, dovrebbe fare chiarezza. Può un gruppo parlamentare così numeroso e così solido – il maggiordomo Caruso ha spiegato che i due nuovi innesti sono merito del “buon governo” del presidente – accontentarsi di vivere nel precariato o fare da comparsa? Chi del gruppo parlamentare potrà presentarsi al cospetto di Tajani, nell’appuntamento di fine ottobre a Palermo, per segnalare anche un solo risultato raggiunto grazie al lavoro di squadra?  Un bugiardo, forse. Perché gli altri se ne guarderanno bene.

Alberto Paternò :

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