Non era il più grande, non era il più bravo, non era nemmeno il più simpatico. Ma per quelli della mia generazione è stato l’incarnazione della prima risata grassa, di un cinema arruffone e spensierato, di un’epoca in bianco e nero ma non per questo scialba. Ancora oggi quando inciampo in una scena dove c’è lui mi fermo e aspetto che finisca, e quante volte mi capita di cantare sotto la doccia “E mi pareva strano”.
Franco Franchi se ne è andato senza gloria esattamente 26 anni fa, perso in un viale del tramonto con troppe nubi. Oggi la sua arte di leggera semplicità sembra lontana anni luce. Perché l’artigianato narrativo non esiste più: l’improvvisazione è un virus che ammorba gli smartphone, che riempie le timeline e non regala storie che resistano oltre il weekend. Franco Franchi è il simbolo di un’antica professionalità casereccia che, come un ossimoro, scavava la superficie della profondità senza mai intaccarla. Si rideva di lui pensando a noi. Si rideva con lui sedendoci gli uni accanto agli altri. Erano tempi infatti in cui uno spettacolo si guardava sempre in compagnia, e lo schermo era unico per tutti. Poi venne la rivoluzione con la moltiplicazione dei display e degli artisti da tinello. E per sua fortuna Franco Franchi non c’era già più, preso com’era a sghignazzare al cospetto del suo dio delle piccole cose.