La differenza tra un dottorando, che percepisce 1130 euro, e un disoccupato che a breve lo Stato finanzierà col reddito di cittadinanza, è di 350 euro al mese. Mentre da un lato c’è il più alto livello della formazione universitaria internazionale, un futuro professionista, che per anni è impegnato in una formazione scientifica accurata e di qualità, dall’altro sei di fronte (se ti va male) a un giovane che preferisce la poltrona al sudore, perché tanto arriva la misura del governo e quindi “perché mai faticare?”. Misteri dei nostri tempi. Che qualcuno, sfuggendo a un’orda populista sempre più diffusa, ha provato a rilanciare con forza dalle colonne di Repubblica.
Il professor Paolo Inglese insegna nel Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Forestali all’Università di Palermo. Ha preso a cuore la situazione – tragica – dei ricercatori italiani, “giovani che non rientrano nei proclami del governo giallo-verde, che non aspettano il reddito di cittadinanza, ma che vorrebbero essere, come altrove succede, cittadini di Serie A”. Ma si arrabattano per arrivare al massimo tra i Dilettanti, insistendo col gergo calcistico. Che, sottolinea Inglese nel suo fondo, “reggono un peso molto più grande del loro ruolo”, che sono “pagati un anno sì e due no”. La tragedia ha un prezzo, e non parliamo soltanto di soldi e di stabilità finanziaria. Ma di sacrifici non riconosciuti, dell’impossibilità di progettare a lunga scadenza e di sentirsi una risorsa come avviene in altre parti del mondo (dove gli italiani, per inciso, spopolano).
Professore, ci scatta un’istantanea del mondo dei ricercatori, oggi, in Italia?
“I ricercatori non stabili appartengono a diverse categorie: ci sono quelli di tipo “A” e “B”, che alla fine di un percorso possono riuscire ad entrare nelle università, ad avere un contratto stabile e possono aspirare a diventare professori; poi ci sono quelli che percepiscono un assegno di ricerca, per un massimo di cinque anni. Ma c’è una fase in cui non si è né l’uno, né l’altro. Per farla breve: ci sono ragazzi che a 40, 42 o 45 anni, dopo aver fatto tre anni di dottorato, cinque da “assegnisti” e tre da ricercatori di tipo “A”, restano a spasso. O, comunque, c’è chi arriva, dopo anni di gavetta, e si ritrova con 1600 euro”.
Si può vivere di ricerca?
“Io sono diventato ricercatore universitario all’età di 26 anni, ma per le generazioni di oggi è impensabile. Se qualcuno ci riesce prima dei 35 ha già fatto un miracolo. E’ una strada di una difficoltà inimmaginabile. In Italia non abbiamo idea di quante persone lavorino gratuitamente dentro il sistema, per anni, con la speranza di venire chiamati, prima o poi, a ricoprire un ruolo formale”.
Perché succede così poco?
“Perché i finanziamenti sono pochissimi e la competizione sempre più forte. Più stretto è il collo di bottiglia, più le persone si accumulano. Il paradosso di questo Paese è avere una pletora di migliaia di persone che grazie a un’abilitazione sono idonee a ricoprire il posto di professore associato, qualche volta anche ordinario, ma che non diventerà mai tale. Tra la laurea e una stabilizzazione – che vuol dire cominciare a pianificare una famiglia o comprare una casa – passano non meno di dieci anni. E lo sottolineo: è una previsione ottimistica”.
Lo Stato non investe abbastanza nella ricerca?
“Nulla in confronto a quanto investe nel reddito di cittadinanza… Guardi, mio figlio fa l’assegnista di ricerca a Pavia, non a Palermo, lontanissimo da casa. Spesso lo guardo e dico: “Figlio mio, che diavolo ti aspetta”. Dovrà rivolgersi per forza all’estero, dove i vantaggi sono quattro o cinque volte superiori rispetto all’Italia. I migliori se ne vanno non perché ci sono i baroni nelle università. Ma perché non puoi spendere una vita in ricerca e guadagnare, quando ti va bene, 1600 euro al mese. Questo sistema non li paga, non li vuole e infatti dall’estero vengono in pochissimi. Non esiste al mondo che ci siano solo 350 euro di differenza tra chi se ne sta sul divano e chi per anni riceve una delle migliori formazioni al mondo in ambito scientifico. Non ho nulla contro la redistribuzione delle risorse, ma è penoso pagare 1100 euro un dottorato”.
E’ solo una questione di stipendi?
“No. E’ che in Italia la ricerca non è considerata un valore. Io mi occupo di agroalimentare, dove ogni giorno si parla di tradizione contadina, di ritorno al passato, di grani antichi. La tecnologia è vista come una nemica. Gli investimenti sulla ricerca sono a lunga scadenza, ma questo Paese non fa investimenti a lunga scadenza. Solo investimenti da bancomat. Lo Stato non si pone il problema del futuro, ma di cosa avviene domani mattina. Mentre noi siamo pagati per pensare a quello che succederà tra vent’anni”.
Nel suo pezzo sui Repubblica ha detto che qualcuno, in Italia, teme la libertà di pensiero. A cosa allude?
“Prenda il nostro Parlamento: chi ha un’opinione diversa da quella del proprio partito, viene cacciato. Mio nonno fu uno dei fondatori della DC. In tanti casi non era allineato con quello che diceva il partito, ma non per questo fu espulso. Sa perché? Perché era forte di 50-70 mila voti che erano reali, fatti da gente, elettori, che avevano scritto il suo nome nell’urna. Se tu hai un sistema politico in cui si va a votare con le liste bloccate, in cui tagli stipendi e vitalizi ai parlamentari, in cui addirittura pretendi di introdurre un vincolo di mandato… hai ucciso la libertà di rappresentanza politica. Io non sono a favore dei vitalizi, come erano concepiti, ma della salvaguardia del ruolo del parlamentare, del parlamento, quello sì. Io credo che occorra pretendere da loro libertà di pensiero e pagarli bene per questo. Non puoi trattare i parlamentari da soldatini e se non alzano la mano li fai fuori”.
Questo cosa c’entra con le università?
“Se in un altro settore pubblico, come l’università, c’è qualcuno che ha un peso, devi dire che si tratta di lobby che fanno schifo. E’ quello che dicono alcuni politici. Ma noi dobbiamo portare avanti la cultura della diversità e della libertà di pensiero, che è la matrice del mondo universitario. Avere opinioni diverse è una forza. Dalle diversità nascono sintesi, dibattiti, confronti, idee. L’Universitas, lo dice il suo appellativo, ha il dovere, l’obbligo fondante di ascoltare e di sviluppare il dialogo tra diversi e deve rivendicarlo, diversamente da quanto, purtroppo, in molti casi non accadde nel ventennio fascista”.
Qual è il contributo dei social e della tv a questa uniformità di pensiero che tanto contesta?
“Enorme. C’è tantissima gente che parla senza avere coscienza di ciò che dice. Nei talk show ci sono persone di tutti i tipi, che parlano di un sacco di cose di cui hanno acquisito le competenze sul web. Un professore universitario, con tutto il rispetto per i giornalisti, non crea la sua competenza scientifica consultando giornali o siti internet. In questo Paese la forza di un pensiero legato a una professionalità forte è rischiosa. E comunque non paga”.
E’ una deriva populista che non conosce sosta.
“Credo che la deriva populista rivendicata dal presidente del Consiglio sia grave. Io vorrei capire qual è il modello di governo a cui ci si ispira. Io sono legato alla democrazia parlamentare, in cui il parlamento rappresenta il popolo, sul serio. Populismo significa che il Parlamento non serve. Quindi sostituiamo il Parlamento con noi stessi. Oppure con una forma di noi stessi come la piattaforma Rousseau. Il fatto che sia la tecnologia a “disegnare” il futuro un po’ mi terrorizza”.
E’ possibile, all’interno di una società che pare così profondamente legata alla pratica populista, invertire la rotta, fare un passo indietro, riappropriarsi della diversità di pensiero, costruire un ponte?
“Quello che è temibile è la riduzione della polifonia. Abbiamo vissuto una fase storica in cui due grandi partiti, di fedi completamente contrapposte, trovavano spesso una sintesi: se non tra di loro, almeno nel Paese. Oggi non c’è nessuna tendenza a costruire sintesi tra movimenti e fedi diverse, anzi c’è la ricerca spasmodica di una condanna dell’altro. Partito Comunista e Democrazia Cristiana hanno insegnato a questo Paese, nel loro confronto durissimo, che si poteva dialogare. Ma i partiti di oggi, non avendo matrici politiche forti, non mi sembra possano dialogare. Provano solo ribrezzo l’uno per l’altro. Questo secondo me è un rischio gigantesco”.
Esiste una soluzione?
“Bisogna costruire luoghi di confronto e di formazione, come un tempo facevano i grandi partiti. Ci sono tanti focolai che segnalano questa necessità e credo anche che sviluppare il libero confronto di idee, sviluppare la capacità critica sia uno dei doveri della comunità universitaria”.