La prima riga, l’incipit, è una dichiarazione di identità ancor prima dell’invocazione d’aiuto, prima ancora di quelle poche parole in cui si snoda il breve racconto di un destino infame: «Sono italiano». Sta scritto così sui nuovi cartelli della carità: «Sono italiano». Come se nella domanda di un soccorso immediato e veloce, quantificabile in qualche moneta da pochi centesimi, quelle due parole rappresentassero un distinguo e quel distinguo una priorità, «prima gli italiani», hanno imparato a dire anche gli ultimi.
Che se ne stanno lì, addosso pochi stracci e coperte, e magari uno o due cani intorno, repertorio della miseria che si replica ogni giorno, meglio se in una scenografia istituzionale e soprattutto rappresentativa: del benessere, in primo luogo, come può essere piazza del Duomo a Milano con il suo contorno di aperitivi d’affari in Galleria e vetrine di grandi griffes sparse nelle traverse, o comunque su qualsiasi altro marciapiedi dove la vita degli altri, dei “normali”, possa stridere ancora, nella speranza che quello stridore, ormai sempre più ovattato, sempre più sordo, qualcosa nell’altrui coscienza, nella pietas di chi passa, agiti, smuova.
Ci sono, certo, anche le storie, anche queste cambiate, una narrazione diversa da prima: più che quelle del disagio estremo (i figli sempre troppo numerosi o malati, la mancanza di un lavoro, l’infermità fisica, l’essersi trovati reietti per familiare esilio o abbandono), sono sempre più numerose, nella loro surreale realtà, quelle del capovolgimento improvviso del destino, dell’«anch’io non molto tempo fa ero come te», di una china sulla quale si è magari scivolati da una modesta scrivania da ancor più modesta paga al marciapiedi, dalla spesa al centro commerciale al carrello semivuoto dell’hard discount, fino al panino e birra, al vagabondaggio, al senza tetto né legge, a quel genuflettersi, a quell’appello finale, cartoncino e pennarello, per il quale la vergogna, la dignità, il decoro sono parole e basta, forma vuota di fronte alla sostanza urgente della sopravvivenza.
Ma c’è adesso anche quell’incipit, quella nuova avvertenza d’esordio, quelle due parole, «sono italiano» come fosse un diritto ulteriore all’ascolto, una cittadinanza che reclama un cuore ancor più grande e più aperto in chi legge, una solidarietà più pronta, un più immediato riconoscersi per via delle origini, come la certificazione che, tra gli ultimi, tu sia comunque il primo a poter reclamare pietà. «Prima gli italiani», lo hanno imparato anche i poveri: qui, sotto la Madunìna, la maggior parte «sono italiano», altro che «ci basta un po’ di terra per vivere e morir…», altra fame, altra miseria e nessun miracolo a Milano, nessuno più.