Non ho mai capito per quale squadra facesse il tifo mio nonno. La sera, a cavalcioni sulle sue gambe, scartavo l’ultimo pacchetto di figurine Panini, e reiteravo la domanda: “Nonno, per chi tifi?”. Silenzio. Non ho mai capito cosa si celasse dietro l’ostentazione di quella non-risposta. A distanza di tempo ho realizzato: mio nonno faceva il tifo per Totò Schillaci. Vibrava per le sue prodezze. E di fronte a quelle era disposto persino a sacrificare l’amore, o la fede, per una squadra di calcio (la Juve, nel suo caso). Forse, ma questo è un pensiero che mi ha raggiunto soltanto oggi, non c’era rimasto così bene per il trasferimento all’Inter, la più grande rivale bianconera, nell’estate del ‘92, quando l’esito e le imprese del Mondiale – ma non le emozioni – appartenevano già al passato. Per questo non mi rispondeva: “Nonno, per chi tifi?”.
Tanti anni dopo incrociai Totò Schillaci per intervistarlo: era un uomo genuino, ma trasandato. Era quasi scocciato per l’insistente santificazione delle sue gesta. Non capisco da cosa potesse sgorgare l’amore e la passione di mio nonno – un uomo tutto d’un pezzo – per lui. Ho iniziato a rivedere i gol con cura, ho avvistato la sua anima popolare, le sue esultanze, i suoi occhi scintillanti, la sagoma minuta e scattante. L’immagine di un campione-per-caso, che proveniva dal basso. Da un quartiere popolare di Palermo, dov’era nato; dall’assenza di talento cristallino, compensata dalla garra e dalla fame. Ho capito, e oggi ve n’è prova, che Schillaci era il calciatore del popolo. L’attaccante che tutti, anche per una sola estate, saremmo voluti diventare. Un’apparizione fugace e via, senza alcuna sovrastruttura. Per questo mio nonno lo amava. Non avevo alcun diritto di sapere per quale squadra tifasse, non era più importante. Ciao Totò, saluta nonno.