Il fascino di quel palazzo milanese lo hanno subìto un po’ tutti i giornalisti della mia generazione: la facciata primonovecentesca, austera ma non troppo, disegnata da Beltrami, l’insegna luminosa “Corriere della Sera”, le grandi scale di marmi, la mitica Sala Albertini. Io ci capitai, la prima volta, al civico 28 di via Solferino, 39 anni fa.
Ebbi quasi l’impudenza – ancora giovane – di convincere il mio giornale dell’importanza dell’arrivo in Italia, il primo dal dopoguerra, del Berliner Ensemble, la compagnia teatrale fondata da Brecht, che in verità evento di grande spessore culturale era. Fine settembre 1979, mi ospitò in quelle stanze Giuseppe Corsentino, allora al “Corriere d’informazione” (esistevano ancora i quotidiani della sera) che era allocato pure lì, battevo i pezzi sulle macchine da scrivere del “Corriere”, correggevo e dettavo al dimafono a Palermo. Ricordo prosaico: un pranzo alla mensa Rizzoli – dall’antipasto al dolce – costava 600 lire.
Quelle sensazioni, quei ricordi, quell’emozione me li ha riportati alla mente “Quelli di via Solferino – Un cronista, i suoi anni con il Corriere e la guerra di Palermo” (Di Girolamo Editore) in cui Enzo Mignosi ha intrecciato in un ordito sapiente e fittissimo, sull’asse Milano-Sicilia, i suoi lunghi anni, trentacinque, da corrispondente dall’Isola per il più autorevole quotidiano italiano. Confesso che ho cercato di allontanare dalla lettura il ricatto crudele della memoria (una battaglia persa) perché Enzo ha quasi naturalmente tracciato due strade – forse anche due storie – parallele: quella di cronista di giudiziaria del “Giornale di Sicilia” (eredità impegnativa con un Mario Francese alle spalle) e quella di narratore del più cruento decennio della guerra di mafia nel capoluogo per le pagine del giornale milanese.
Lo ha fatto senza la narcisistica supponenza dalla quale spesso noi di questo mestiere ci facciamo risucchiare quando ci raccontiamo, con una sincerità a volte disarmante che parte da quel sogno inseguito fin da ragazzino alla sua realizzazione, intrecciando il privato (quello di un cronista difficilmente è scollato dal suo lavoro) con il mestiere, la vita di un uomo “normale” con quella di un giornalista, che tanto “normale” non è. Un pezzo di storia sua (e anche un po’ mia perché in via Lincoln abbiamo comunque lavorato a qualche decina di metri di distanza) ma in particolare di Palermo e di un suo travagliatissimo momento, senza lasciarsi prendere la mano da manierismi narrativi, da analisi mafiologiche, da mitologie professionali anche se alla fine (mannaggia a lui!) ci consegna di questo “lavoraccio” un ritratto ancora affascinante. Valido a tutt’oggi nonostante i tempi siano assai cambiati: lo stesso entusiasmo con il quale si leggono queste 216 pagine.