Tranquilli, annegherà tutto in un “caffè pagato mio”, figura retorica di riappacificazione panormita. Un po’ come nell’estate rovente di due anni fa quando Leoluca Orlando sconfessò Roberto Alajmo, alla fine della seconda stagione da direttore dello Stabile di Palermo, al Biondo, dopo l’esordio premiante del primo anno, quello del rilancio estetico-ecumenico-finanziario post-carrigliesco: critiche tanto pesanti da indurre Alajmo a gettare la spugna. Apriti cielo! L’intellighenzia cittadina (più qualcun altro oltre Stretto) si schierò tutta dalla parte del giornalista Rai, in aspettativa per amor d’arte, perfino i fedelissimi del sindaco sfiorarono la bestemmia, l’iconoclastia, l’eresia. Strepiti tali che al primo cittadino toccò fare marcia indietro e riaccordare fiducia allo sfiduciato che si “annacò” per tre settimane – usanza tutta palermitana che aveva già raccontato in un suo libro – con le dimissioni firmate in mano e poi sfiatò i fiati sospesi con un “ritiro”. Adesso gli strali il sindaco li ha scagliati contro Emma Dante, regista cittadina di nascita, internazionale per acclamazione, nomade per divieto non scritto ma anche per scelta, che Orlando ospita regolarmente da qualche anno nelle sue “case”, il Biondo e il Massimo. La Dante aveva chiesto all’amministrazione comunale uno spazio dove poter provare con la sua compagnia, Sud Costa Occidentale, da anni relegata nello scantinatone polveroso di un palazzo anni Settanta di brutta edilizia medio-borghese in un quartiere di vecchia mafia, polverosa anch’essa. Come un padre che mette a tacere una figlia che da pretenziosa s’è fatta ribelle, Orlando l’ha tacciata d’essere un’eccellenza da ridimensionare e un’artista che vive di rendita. Rivendicando i bisogni dei tanti altri “figli” a cui pensare specie nell’anno in cui Palermo è capitale della cultura. Riapriti cielo! Quelli che per Alajmo furono strepiti, qui sono diventati, più che cori da tragedia antica (proprio la scorsa settimana la Dante ha debuttato con la sua prima regia al teatro greco di Siracusa per il festival dell’Inda), urla da stadio, insulti all’arbitro, minacce di invasione di campo. Altro che rabbia iconoclasta, stavolta è stata quasi furia sovversiva da ultras. La città degli intellettuali ed in particolare quella dei teatranti, compreso chi, un po’ maldestramente, ha offerto solidarietà all’artista con mirate puntualizzazioni su una scarsa empatia che negli anni ha fatto testo, leggenda, curriculum (“può piacere o meno…”). Emma ha restituito le accuse al mittente, “profondamente allibita”, tacciandolo, in soldoni, d’essere un signorotto prepotente arroccato a Palazzo delle Aquile. E minacciando di “oublier Palerme” dopo aver ri-fatto i bagagli. E di tornare a lavorare altrove come ha fatto per una certa parte della sua carriera.
Carriera cominciata, più che per sacro fuoco dell’arte, per una folgorazione sulla via secondaria di quegli intruppamenti che erano un tempo le deportazioni di liceali in platea. Emma fa una toccata e fuga al Teatés di Michele Perriera, vola poi a Roma all’Accademia d’Arte Drammatica e qui, alla “Silvio D’Amico”, si diploma, fa per qualche anno l’attrice in compagnie di giro. Ma è fatta per forgiare e non per essere forgiata, è più regista che attrice, più creatrice che interprete e così a Palermo fonda il suo gruppo e il suo teatro. Scritto e diretto da lei. Quasi sempre incentrato sull’ancestrale, ambiguo, perverso gioco della sessualità e del potere, dei nebulosi grovigli familiari e del mistero della morte. Un teatro di idea che appena in scena si fa subito carne. Senza dubbio di bella forza espressiva, di qualche suggestione antropologica che sullo spettatore foresto ha sempre la sua malìa, ma debitore in gran parte di precedenti, illustri esperienze sceniche. In ogni spettacolo dantesco, su tot trovate una parte è originale, un’altra è trascrizione. Attenzione: non scopiazzatura ma rielaborazione attenta a non cadere nella citazione tout court, evocazione furba, eco astuta e apparentemente lontana, realizzata però benissimo. Più di corpo che di parola, il teatro della Dante conquista in pochi anni la scena nazionale, ammalia la critica, accatasta un premio sull’altro, ammaga le platee, vai a Cagliari e ci sono fan club di Emma, vai a Bologna e l’amica che non capisce una parola di siciliano ti giura che come lei non c’è nessuna, vai a Trento e dalla provincia organizzano torpedoni per vedere i suoi spettacoli nel capoluogo. E poi la Francia, Parigi che la adora. Emma che dove la tocchi suona. Fa la lirica e inaugura la Scala e l’Opèra Comique, fa il cinema e all’esordio, alla Mostra di Venezia, cascan tutti ai suoi piè, scrive libri e accorrono in centinaia alle presentazioni che quasi bisogna abbattere le pareti delle librerie. Emma che è bravissima a farsi coprodurre (nelle locandine dei suoi spettacoli non ci sono meno di tre sigle, in testa la sua Sud Costa Occidentale, e a volte sono così tante che si fa confusione), che si fa “distribuire” dai grandi impresari che vendono i suoi spettacoli su più palcoscenici e tutti titolatissimi oltre che in altrettanto titolati festival internazionali, che ha praticamente tre o quattro allestimenti – tra novità e riprese – in tournée ogni stagione, Emma che è praticamente un brand, merceologicamente parlando, per dirla in termini di marketing, che sembra roba estranea, brutta e fuorviante in mezzo alla poetica del fare arte ma intanto così è. Emma e la leggenda che le gira intorno, quella del “malocarattere” che magari è solo una corazza perché lei di suo sarebbe anche suadente pur senza affettazione: Emma non la manda a dire ed è sempre diretta fino a sembrare brusca, maltratta i suoi attori (ma quale regista gli ha mai voluto bene del tutto?) e la pletora di collaboratori che la assistono fino a farli scappare o ad esserle grati per la vita (negli anni comunque la lista è quasi sempre la stessa, fatta di fedelissimi e fidatissimi), Emma alle prove non fa sconti nemmeno al marito-attore, Carmine Maringola, in verità bello e bravo e gli boccia i bozzetti se non le garbizzano, visto che lui è pure scenografo. Anche se tutto questo fosse anche un tantino esagerato, ormai, oltre che leggenda fa, per l’appunto, quasi Wikipedia.
La Dante e la “sua” Palermo, quasi sempre considerata ingrata: ha dovuto aspettare che la “vecchia guardia” dello Stabile andasse in pensione – ovvero l’uscita di Carriglio e l’avvento di Alajmo – per vedere un suo spettacolo sui legni del Biondo, ha debuttato sì in altri spazi ma mai le si erano aperte le porte del teatro di prosa palermitano per antonomasia. Una specie di linea gotica, prima, che sembrava tracciata, bene che andasse in termini chilometrici, sul confine di Gibellina e delle Orestiadi. Al Biondo, assieme agli spettacoli, è arrivata anche la scuola di teatro da lei diretta, sapere scenico appetito da tanti che arrivano da varie parti del Balpese a sostenere le selezioni d’ingresso. E poi le regie d’opera al Massimo, addirittura un paio di inaugurazioni.
Adesso l’ennesima, forse inattesa, frattura, l’intemerata del sindaco che da sponsor s’è trasformato in nemico, la conseguente minaccia di piantare baracca e burattini e tornarsene in giro per il mondo. La prima domanda è: può fare a meno Emma Dante di Palermo? La seconda domanda è: può fare a meno Palermo di Emma Dante? La prima risposta potrebbe essere sì, con dolore ma sì, anche se è difficile ipotizzare un’ispirazione a distanza, una vena creativa che non affondi più direttamente nell’humus panormita. La seconda risposta è più complessa ed è legata non soltanto alle coproduzioni dello Stabile (il Biondo mette la sua parte ma con la Dante esporta il suo nome in giro come nessun altro spettacolo gli permetterebbe di fare) ma a quel piccolo non indifferente indotto che l’attività della regista ha creato in queste ultime stagioni: un po’ come le fabbriche di elementi o di accessori per auto che crescevano a Termini quando c’era la Fiat, la scuola di teatro, ad esempio, dà lavoro ad assistenti registi, scrittori, giornalisti, attori, scenotecnici e quanti altri vi insegnano, ha creato un flusso di ospitalità, ha in un certo senso lanciato la città come sede di formazione artistica di un certo livello.
Riusciranno dunque i nostri eroi a fare la pace? Si lascerà convincere il primo cittadino a una retromarcia-bis (stavolta la partita è assai più tosta che per l’affaire Alajmo), verrà fuori l’artista dal gorgo del suo addolorato sbigottimento presa come è stata finora dall’Eracle euripideo che la attendeva al varco per il suo nuovo impegno internazionale? Molti scommettono che sì. Basta tenere pronta, sotto pressione, la Cimbali del bar del teatro e accesa la macchinetta dell’espresso a Palazzo delle Aquile. Chiunque paghi – tra marce indietro e perdoni – questo caffè.