Se scompare il Quirinale

Forse la cosa non è di lancinante interesse, ma è scomparsa la presidenza della Repubblica. La disparizione non è avvenuta tra le lacrime, non indurrà nostalgia. Non è questo necessariamente un tempo di ricordi, tantomeno istituzionali, sebbene si celebri ogni momento le virtù della memoria. Ma due parole commemorative, se non altro per ragioni di garbo istituzionale, vanno scritte comunque.

Il Quirinale ha deciso di affrontare un complicato ricambio di governo senza decidere alcunché. Così a decidere sulle sue prerogative ormai sono altri. A molti incalliti laudatores, che si sono presi quotidianamente l’incarico di mettere il virtuale al posto del vero, è sembrata o è voluta sembrare una tecnica raffinatissima. Per questo hanno sfidato il ridicolo e non si sono accorti o hanno finto di non accorgersi di quanto è mestamente accaduto, divagando sulla tecnica della dilazione che compra il tempo, coscienzioso comportamento inteso – si è detto – a salvare la sovranità elettorale e un governo politico al quale Mattarella non vuole assolutamente rinunciare. Niente di più risibile.

In realtà dall’inizio di questa funesta vicenda ci sono le numerose consultazioni, siamo arrivati a quattro: le consultazioni sono una prassi e non un dovere costituzionale del capo dello stato, perché in diritto, nella giusta e sacrosanta astrazione del diritto costituzionale, la sua scelta di un incaricato per la formazione del governo è nuda, è funzionale e personale, corrisponde a un indirizzo politico nell’interesse generale del paese e in conformità alla norma fondamentale, è l’essenza stessa della formazione della volontà parlamentare nella definizione del potere esecutivo, accanto e in controbilanciamento con altri poteri. Convocarne a iosa o ad libitum, di consultazioni, è altro nome per la scelta di non scegliere, di inviare, di mettere la testa sotto la sabbia.

L’orientamento degli elettori e dei partiti o gruppi parlamentari che dopo le elezioni li rappresentano è ovviamente il fonte battesimale di un governo, ma l’acqua santa la dispensa quel sacerdote o custode della Costituzione che ha poi il potere di equilibrare il “potere tra i poteri” eletto dai cittadini, tutelando diritti e doveri (è presidente del Consiglio superiore della magistratura), sicurezza (è capo delle Forze armate), dialettica tra i diversi centri di decisione che corrispondono a una sovranità divisa e sorvegliata da regole di reciprocità e di rispetto (istituzioni).

Avesse vinto le elezioni una lista unica con il 79 per cento dei voti – e non è accaduto, al contrario non c’è stata maggioranza prefigurata nelle urne – sempre si sarebbe dovuti passare per la nomina presidenziale di un incaricato per la formazione del governo, che avrebbe poi scelto i ministri da nominare in concomitanza con la cerimonia del giuramento . Il nome e cognome del prescelto sarebbe stato di dominio pubblico e non ci sarebbe stata sorpresa, come è avvenuto più volte in epoca di elezioni secondo la regola elettorale maggioritaria. Anzi, ci fu sorpresa quando con il famigerato ribaltone fu sovvertito quel principio, e il Quirinale di Scalfaro raddoppiò la scelta del popolo con una sua propria, appellandosi alle regole della democrazia parlamentare senza concedere a chi aveva vinto e passava all’opposizione per manovre di palazzo nuove elezioni, varando governi illegittimi al posto di quelli dotati del consenso popolare maggioritario.

Ma anche nel caso di un chiaro vincitore uscito dalle urne non sarebbe scomparsa la virtù legittimante dell’atto di nomina, da cui procedono i negoziati per un programma di governo e la scelta della sua composizione. Questa legittimazione è ciò su cui poi si fondano quelle funzioni importanti che fanno di una presidenza della Repubblica una cosa diversa da un ente inutile, da un Cnel per esempio o dall’Associazione delle Guardie Reali del Pantheon: tutelare la copertura finanziaria delle leggi, l’autonomia e la conformità alla legge della magistratura inquirente e giudicante, l’imparzialità e la correttezza della Pubblica amministrazione eccetera. Insomma, Einaudi.

Ecco. Procedendo di consultazione in consultazione, offrendo incarichi rigorosamente simbolici ai presidenti delle Camere per accertamenti altrettanto simbolici di maggioranze inesistenti, rifiutando di dare un incarico per la formazione del governo a chi era in testa, come numero di elettori e di parlamentari, il Quirinale ha preparato la fase terminale e poi il decesso della presidenza della Repubblica, altro che il governo Pella del 1953; decesso che è avvenuto infine quando, prendendo a richiesta altro tempo e rinviando sine die un incarico che avrebbe potuto sfociare in un esecutivo elettorale di minoranza, insomma facendo niente e lasciando ad altri fare tutto e il contrario di tutto, e magari segretamente tifando per una presidenza del Consiglio intitolata al signor Di Maio, come alcuni suggeriscono, la presidenza della Repubblica è stata sostituita da un confuso e balbettante negoziato governativo al quale naturalmente mancava, gravissima e invalidante pecca costituzionale, il capotavola, l’incaricato del presidente che rispondeva ai partiti e a lui, prima che alla cosiddetta piattaforma Rousseau e ai gazebo.

Il tutto ha il sapore di una democrazia dell’inganno, di una democrazia non liberale, insomma di una pagliacciata. Così, mentre i barbari sguainavano le loro spade e agitavano in Roma le loro capigliature unte dell’unzione democratica, ma depilate meticolosamente con il capotribù Rocco Casalino, del “Grande Fratello”, tacquero le Oche del Quirinale. E questo fu cagione di rovina della presidenza e della Repubblica.

Giuliano Ferrara per Il Foglio :

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