Se Leoluca Orlando dirottasse sui problemi di Palermo la stessa attenzione rivolta ai problemi fuori da Palermo – non ultima la questione afghana – sarebbe un signor sindaco. Con una maggioranza solida in Consiglio comunale. E nessuno a rompergli le scatole sui rifiuti, sui cimiteri, sul ciaffico. Significherebbe aver messo a frutto un’esperienza trentennale, fatta di buone pratiche amministrative e sensibilità incomparabile. Invece, ogni uscita di Orlando – sulle magliette rosse, sulle Ong, sui rifugiati – suona come una nota stonata. Perché c’è sempre un’altra realtà, quella che i palermitani vivono sulla propria pelle e alla quale, ogni giorno di più, rischiano di assuefarsi. L’Afghanistan di Orlando è Palermo. Città di frontiera in cui il sindaco, un attore senza registro, ha collezionato sconfitte su ogni fronte. E assessori-talebani di cui non si sentiva il bisogno.
Così la sua successione (complicatissima, vista le circostanze) diventa motivo di rifugio. Per i palermitani. Il professore, invece, nella sua missione umanitaria ricolma di speranza, continua a ergersi come musa ispiratrice, e preferisce le riflessioni ad ampio respiro: “Palermo e la Sicilia – ha detto a ‘La Repubblica’, interpretando il sentimento di un popolo ed, evidentemente, di tutti i suoi rappresentanti istituzionali – sono pronte a ospitare i rifugiati afghani, perché da tempo la mia terra ha fatto dell’accoglienza una bandiera, dimostrando che l’integrazione non soltanto è possibile ma anche conveniente”. Orlando si è detto pronto a istituire un ponte fra Palermo e Kabul per portare in città una cinquantina di persone che avrebbero già legami con afghani trapiantati da tempo nell’Isola. Inizialmente necessiterebbero dell’aiuto della Caritas o della Comunità di Sant’Egidio, sempre molto attive nel sociale. Poi, fosse per lui, li porterebbe a vivere nei borghi abbandonati (contrastando, così, la desertificazione) e li impiegherebbe per il lavoro nei campi e come guide turistiche, perché sanno parlare le lingue.
Nessuno potrebbe fargliene una colpa. Anzi, lo ringrazieremmo tutti per aver implementato le opportunità di sviluppo dell’amata Sicilia, e aver restituito dignità a un popolo martoriato dal regime e dalla paura. Ma poi, quando un afghano dovesse imbattersi nella monnezza di Palermo, o nella brutalità della perdita di un proprio caro (con tanto di sepoltura rimandata sine die), ecco che la missione caritatevole rischierebbe di tramutarsi nell’ennesima fregatura. E rivelarsi per quello che è: un tentativo di amministrare i problemi del mondo, senza essersi occupato dei problemi di Palermo. A Orlando, però, va bene tutto purché si parli di lui. Purché la tiritera prosegua all’infinito. Mania di grandezza che, ormai, somiglia sempre di più a un istinto di sopravvivenza.