Possono più i silenzi che gli evviva confermare che Franco Maresco è un’eccellenza palermitana ma scomoda? Possono. I silenzi sui social, s’intende, le assenze ma anche le medie e lunghe distanze, prendendo tutto a termometro ormai scientificamente accettato degli umori collettivi, adulatori e detrattori, fans e cinefili tout court, perfino tifoserie similstadio. Anche se ormai la chincaglieria ideologica e iconografica del bastian contrario, del “nemico della contentezza”, del fuori dal coro fa un po’ parte della sua figura di intellettuale disorganico. Ma tant’è: con il suo «La mafia non è più quella di una volta» Franco Maresco ha vinto il Premio speciale della Giuria al Lido che non è robetta, che non è cosa di poco conto, è uno dei premi principali della quasi ottuagenaria kermesse veneziana, il quarto, se proprio vogliamo cardare lana caprina, in uno dei festival più importanti del mondo a celebrare la Settima Arte.
Certo, come si prevedeva a Venezia non c’è andato, Maresco, paura dell’aereo, paura del pubblico oceanico e incontrollato, ma anche allergia al gran baraccone di divi e starlette, dei media che vogliono farti dire tutto e il contrario di tutto, dell’inviato che ti chiede il senso del film e non si capisce che ce l’abbiano mandato a scrivere se non è riuscito a cavarne uno. Un mondo non suo che pure questo mondo ha scelto – anche se su un’altra dimensione – per esistere. Ritira il premio…, la formula consueta. Per lui lo ha ritirato Rean Mazzone, il suo produttore storico e il produttore storico della geniale coppia Ciprì & Maresco quando i due filavano cinici d’amore e d’accordo. E anche stavolta il rito s’è consumato per interposta persona, con il patron di Ila Palma (che nei giorni scorsi aveva stilato, come pezza d’appoggio dell’assenza, quasi una diagnosi più che un breve elenco di motivazioni) che si è avviato serio e quasi solenne tra gli applausi della Sala Grande verso il palcoscenico con quella sua candida chioma fluente, quell’aria a metà tra nouveau philosophe e leader di un complesso beat fine anni Sessanta.
Adesso l’Istituto Luce-Cinecittà spedirà nelle sale la mafia secondo Maresco (anche Roberto Cicutto, patron della gloriosa istituzione, ha avuto come sempre occhio lungo). Il premio conquistato in Laguna potrebbe fare da catalizzatore di pubblico, far uscire dalla dimensione di nicchia una pellicola come questa collocata per quasi insulsa comodità nel genere della docufiction (già, cos’è docu? e cos’è fiction?, vai a capire e soprattutto vai a capire a che serve capirlo).
Ma soprattutto arricchirà, al di là delle solite, noiosissime fazioni, il dibattito su quanto sia cambiata davvero non tanto Palermo quanta una certa idea che alcuni palermitani hanno della loro città. Nel giorno in cui l’ennesima cantante neomelodica (come riporta Salvo Palazzolo su “la Repubblica”) si dissocia dal “sentire” di Cosa Nostra ma poi sale sul palco della festa di piazza e intona un brano sul rimpianto per lo «zio Franco», al secolo il boss Franco Inzerillo («Passo di Rigano te sta chiagnénno»), un film che inscena un concerto di neomelodici in memoria di Falcone e Borsellino non può che esserne non tanto un triste paradigma ma una più reale che surreale testimonianza. Non serve anche a questo, d’altronde, il cinema? E allora prego, entrate pure in sala e mettetevi scomodi.