Il primo evento del dopo-Covid l’ha organizzato Nello Musumeci a Palermo. L’11 e 12 giugno prossimi sarà un’occasione per fare il punto sui primi tre anni di governo. Così si legge sul manifesto (lo sfondo è giallo come il colore di Diventerà Bellissima) che presenta l’iniziativa, anche se in realtà, dal giorno dell’insediamento (il 30 novembre 2017), di tempo ne è trascorso un po’ di più. Il primo bonus – ma questo è un peccatuccio veniale – sta nei numeri. Nell’aver ridotto di qualche mese la durata di una legislatura compromessa dall’emergenza, che rischia di segnare – questo sì – il giudizio dei siciliani su un governo (numericamente) solido, ma mai così incerto come di recente.
Dall’esplosione del Coronavirus, e per la doppia diramazione che ha assunto l’emergenza (sanitaria e finanziaria), la Regione siciliana ha il respiro affannato. E se nessuno, come spiega Musumeci, è nato pronto per affrontare una pandemia, il metro di valutazione va proiettato sulla capacità di resilienza dell’esecutivo di fronte al tornado che ha investito milioni di siciliani e migliaia di imprese. Va ridato un senso al ruolo della politica e, considerati i ritardi dovuti al Covid, capace di rallentare le riforme e tutto il resto, servirà molta attenzione per affrancare gli alibi dalle responsabilità, altrimenti rischia di venir fuori un quadro poco veritiero. Un pastrocchio. Fra le slide che serviranno a presentare il lavoro di ogni singolo assessore, quasi fosse una tesina per l’esame di maturità, ne servirebbero alcune per descrivere i problemi incontrati, i fallimenti vissuti, i buchi nell’acqua di questo esecutivo. Sarebbe un buon servizio all’onestà di cui il presidente fa sempre un gran vanto.
E allora, dopo aver parlato dei tremila infermieri assunti per fronteggiare l’avvento del Covid, bisognerebbe spiegare perché non c’è traccia della ratifica dell’accordo coi farmacisti – volendo restare in ambito sanitario – per la somministrazione dei vaccini (un accordo già sottoscritto a livello nazionale); o descrivere i motivi che hanno portato la Sicilia, durante l’ondata dell’autunno scorso, a essere fra le peggiori per capacità di tracciamento. Si potrebbe partire da qui, da un’operazione trasparenza che non deve, e non può, essere annacquata nell’alibi dell’impreparazione. Anche altrove erano impreparati, e adesso marciano come fenomeni. Mentre in Sicilia, a causa degli Open Day che si sono prolungati troppo, i medici di famiglia lamentano la mancata consegna delle dosi per immunizzare (a domicilio o nel proprio ambulatorio) i pazienti fragili. Poi, ad esempio, si potrebbe ammettere un po’ di negligenza nella trattazione dei dati – fra tamponi, positivi e decessi c’è l’imbarazzo della scelta – che ha proiettato sulla sanità siciliana un’ombra di cui si sarebbe fatto volentieri a meno, e che ha costretto l’assessore al ramo a dimettersi.
Non è un processo alle intenzioni – magari Musumeci farà mea culpa, esternando grandi doti di onestà intellettuale – ma ai trascorsi di questa Regione, che nell’ultimo anno non ha tirato fuori un centesimo per dare manforte alle persone in difficoltà. A chi è rimasto senza un lavoro, a chi non ha più potuto permettersi l’affitto, a chi ha dovuto chiudere baracca o, nella migliore delle ipotesi, da un giorno all’altro, ha visto dimezzare il proprio fatturato. La gestione dell’emergenza economica è stata un disastro: proprio ieri, dalle colonne del Giornale di Sicilia, si è appreso che dei cento milioni promessi da Musumeci per le famiglie indigenti (è un annuncio di marzo 2020, a lockdown in corso), soltanto 40 sono stati erogati. E con enorme fatica, date le procedure. Molti Comuni ci hanno rinunciato in partenza, avendo un obbligo di rendicontazione con l’Europa. Le risorse, infatti, non erano farina del nostro sacco, ma legate a programmi d’intervento comunitari. Eppure Musumeci, cercando di anticipare Conte, ha deciso di destinarle a pioggia ai nuclei in difficoltà, senza alcuna certezza sui tempi di erogazione (e sull’erogazione stessa). Che fine faranno i 60 milioni rimasti fuori?
Ma di quella Finanziaria di cartone (anno 2020), restano un sacco di voci inattuate. Il segretario del Pd, Anthony Barbagallo, si è soffermato sui 5 milioni destinati alle imprese dello spettacolo dal vivo e i cinema, tuttora in ghiaccio; i Cinque Stelle, invece, hanno segnalato anomalie nel bando per gli agricoltori, perché “la piccola impresa, che perde il 50% del fatturato, non vedrà un solo euro”. E il bonus facciate? Notizie? C’erano 50 milioni destinati all’uopo e finiti chissà dove. Ma oltre a non saper spendere, spesso – troppo spesso – il governo s’è rivelato inadeguato nel fornire una risposta ai problemi. Prendete il Bonus Sicilia. Una misura pensata con criterio dall’assessore Turano, ma sacrificata sull’altare dell’inefficienza informatica di una Regione che avrebbe persino una società partecipata ad hoc (Sicilia Digitale) per portarla avanti. E, invece, si affida a operatori esterni che, nel giorno del giudizio, mandano tutto a rotoli. L’annullamento del click day da parte della Tim, e i difetti di comunicazione da parte dell’Arit, il dipartimento dell’innovazione che sta sotto l’assessore all’Economia, Armao, ha determinato un cambio di rotta improvviso nel bando: non più agevolazioni, ma contributi a pioggia. Tradotto: una mancia da 2 mila euro per 60 mila aziende. Briciole.
Ma un’altra grave carenza, che andrebbe sottolineata nelle slide di Palermo, è il fallimento della Cig. La cassa integrazione in deroga. Sembra passato un secolo da quando lo Stato chiese alle Regioni di fare il lavoro “sporco”, raccogliendo su una piattaforma ad hoc le istanze dei consulenti del lavoro durante la prima ondata: passarono settimane per censire tutti e avviare l’erogazione degli ammortizzatori da parte dell’Inps. Caddero alcune teste, come quella del dirigente regionale dell’assessorato al Lavoro, Giovanni Vindigni; ma, al netto di alcune ammissioni di responsabilità da parte di Musumeci e Scavone in conferenza stampa, l’episodio passò in cavalleria. Per fortuna, in seguito, lo Stato concentrò le competenze sotto la propria ala, senza far ricorso all’aiuto di Palermo.
Queste sono solo alcune delle pratiche di mal governo che andrebbero evidenziate per onestà intellettuale. Figlie di una difficoltà endemica, dovuta per lo più a una struttura burocratica grippata, che col Covid è detonata. Ma ci sono molti altri capitoli aperti in questa legislatura che – magari – rientrano fra le “prospettive” che il governo regionale vorrà evidenziare di fronte ai propri sostenitori, l’11 e il 12 giugno. Roma, in seguito all’accordo Stato-Regione, ha chiesto la riforma dei Consorzi di Bonifica e dei forestali, ma anche quella della pubblica amministrazione, col recepimento delle direttive nazionale in materia di dirigenza pubblica. E poi rimane un grosso cruccio del governatore: cioè la razionalizzazione delle società partecipate – i cosiddetti carrozzoni – e la chiusura di alcune procedure di liquidazione che si trascinano da anni. Ma sul piano delle riforme, meriterebbero un approfondimento (sul perché non si siano mai fatte) quella dei rifiuti o dell’edilizia. Ma anche quella del turismo o dei beni culturali. In sostanza bisognerebbe capire come mai le cose più importanti sono scivolate in fondo alla classifica della priorità, e se la rivalutazione della stazione equina di Ambelia, o di alcuni borghi fascisti caduti in disuso, bastino a compensare le mancanze.
Infine, andrebbe aperta una parentesi sulle questioni irrisolte con la Corte dei Conti, sul mega disavanzo scovato nel 2019 (che dovrà essere ripianato nei prossimi dieci anni), sui numerosi errori contabili – come l’accertamento dei residui attivi – che hanno rallentato l’iter dell’ultima Finanziaria, fra l’altro uscita dal laboratorio di palazzo dei Normanni con tanti tagli e poca resa. Bisognerebbe accendere i riflettori sulle cose che hanno funzionato, ma anche sul resto. Che non è poco.