Il primo (e fin qui unico) effetto dell’umiliazione di mercoledì, per Renato Schifani, è stato abbandonare l’aula, paonazzo in volto, e rifugiarsi a Palazzo d’Orleans. Fine. Il secondo mercoledì nero del presidente, dopo la mancata approvazione della “salva-ineleggibili”, avrebbe preteso una spiegazione e, magari, un chiarimento politico. Scandagliare i motivi (personali?) che hanno indotto almeno 12 franchi tiratori a tradire il patto della vigilia – neppure Galvagno ha avuto sentore dei mal di pancia? – e votare contro il ritorno delle province, cioè un punto saliente del programma elettorale della sua coalizione.
Invece, l’umiliazione è tale e profonda da stravolgere persino il vocabolario della crisi. Schifani non ha accennato alla parola “dimissioni”: giammai, significherebbe la fine della sua carriera politica e lo scioglimento anticipato del parlamento. Né, come prevedibile, ha tirato in ballo gli equilibri di governo, minacciando l’ “azzeramento” – per vedere quali partiti fossero disposti a sostenerlo – o un “rimpasto”. Non c’è stato spazio per una “verifica”, nessuno ha invocato un “gabinetto di guerra”.
Ma per capire quanto è surreale il clima a Piazza Indipendenza, e quanto sia rassegnato il governatore nell’affrontare ricatti e ritorsioni della sua ex maggioranza, basterebbe rileggere in controluce i comunicati stampa dei partiti che lo sostenevano: tutti dispiaciutissimi perché “le nostre province, ormai da troppo tempo, sono lasciate in balia dell’assenza di politica e di governo delle cose” (cit. Mpa). L’unico a segnalare la presa in giro è stato Totò Cuffaro. “È in atto una stucchevole sagra delle ipocrisie. Troppe ridicole verginelle dichiarazioni di rappresentanti della maggioranza che lamentano la mancata approvazione della legge sulle Province. ‘Excusatio non petita accusatio manifesta’. Almeno abbiano il decoro, se non il buon senso, del silenzio”.
Ma ancora più stucchevole è la reazione di Schifani, che come l’on. Patacca finge che non sia successo nulla: piuttosto si dedica agli incontri bilaterali. Prima col console di Tunisia (non è una battuta: è accaduto sul serio giovedì mattina), poi con Galvagno e i due ex governatori: Cuffaro e Lombardo. Ma cosa vuoi che venga fuori dagli incontri bilaterali, oltre a una rinnovata fiducia per l’operato del presidente che è già affondato due volte? Nulla. Dal summit con Galvagno, infatti, è emerso solo il patetico tentativo, una finzione in pratica, di redistribuire le colpe tra i vari partiti (ma va?) e la minaccia di un “penultimatum” (cit. La Sicilia): “Nel caso in cui fatti del genere dovessero ripetersi – sono state le conclusioni consegnate da Schifani al capo dell’Ars – verranno assunte decisioni politicamente importanti”.
Schifani e Galvagno erano gli unici, forse, a non aver capito cosa sarebbe successo mercoledì a Sala d’Ercole. Basterà una reciproca pacca sulle spalle per rimettere in piedi una legislatura già consumata? La risposta è no. E non serviranno al presidente della Regione neppure i retti consigli di Cuffaro e Lombardo, alla guida di due partiti radicati soltanto in Sicilia, che peraltro sulle province restano in piena contraddizione: la Democrazia Cristiana vuole fortissimamente le urne (e conta di tornare a discutere la riforma al più presto in aula); il Mpa punta tutto sulle elezioni di secondo livello, pur di chiudere il lungo e infausto commissariamento degli enti d’area vasta.
Parlare coi due “compari”, però, non servirà a Schifani per capire cosa c’è dietro. Per analizzare a fondo i motivi della disfatta e provare a porvi rimedio. Perché dentro Fratelli d’Italia, la Lega e persino Forza Italia qualcuno ha scelto di pugnalarlo alle spalle? Perché, a differenza di Musumeci che non aveva il timore di scagliare il sasso (salvo ritirare la mano), Schifani non fa accenno ai motivi che hanno portato molti dei suoi sodali a schierarsi con le opposizioni? Qual è il movente dell’intera operazione? L’unica cosa certa è l’arma del delitto: cioè il voto segreto (che molti, in queste ore, hanno utilizzato come mezzo di distrazione per non entrare nei dettagli dell’accaduto). Ma questa smania di rinviare il confronto, o se possibile di evitarlo, è un segnale disarmante per la Sicilia e per la sua classe politica: non c’è nulla da cui ripartire.
Dopo aver fatto ammuina ed essersi intrattenuto coi centristi (e persino con Saverio Romano, che all’Ars non vanta chissà quali numeri), il vero banco di prova arriverà nei summit coi partiti nazionali. A cominciare dal proprio: chi comanda in Forza Italia? Chiunque direbbe “Schifani”, ma le ultime evoluzioni di un paio di parlamentari agrigentini e le febbrili rimostranze di Falcone, indicano un malcontento sotterraneo e insidioso, che si propaga da Roma. Alcuni “spioni” dell’Ars sostengono che dietro i franchi tiratori azzurri, addirittura tre o quattro, possa esserci lo zampino di Antonio Tajani. Come risaputo, fra il ministro degli Esteri e il governatore siciliano non corre buon sangue, e ancor meno dopo la scelta di nominare Occhiuto, il presidente della Calabria, come vice segretario nazionale. Schifani non potrà accontentarsi di avere come interlocutore Marcello Caruso – che poi è come parlare allo specchio – se vuole risolvere le beghe interne.
Non sarà più facile con Fratelli d’Italia. Convocare a palazzo Pogliese e Cannella, i due coordinatori regionali traballanti, non offrirà al governatore un quadro d’insieme sugli umori dei patrioti. FdI è sotto l’egida della coppia Messina-Lollobrigida, gli interlocutori veri – che tengono in pugno assessori e gruppo parlamentare – siedono a Roma e pare non nutrano grande stima nei suoi confronti. Eppure è con i meloniani, con Galvagno in particolare, che Schifani ha provato a mostrarsi solidale dopo la beffa sulla “salva ineleggibili”, millantando nuove armonie. Non è bastato.
Altro inghippo: la Lega senza padroni. Il passo di lato di Annalisa Tardino per candidarsi alle Europee, ha aperto un vulnus nella guida del Carroccio e aumentato le preoccupazioni di Salvini. Durigon, che ha assunto l’incarico da qualche giorno, possiede gli strumenti per rassicurare Schifani sul proprio destino, se non avrà prima ricompattato l’enorme crepa che separa i leghisti della prima ora dai sammartiniani? Improbabile. Schifani, oltre ad avere le mani vuote, è rimasto anche privo di amici fidati e di colleghi da consultare. Per questo ha deciso di tirare i remi in barca (fino alle Europee) e fingere che non sia accaduto niente. Ma è un giochino a non crede più nessuno.