“Noi di Forza Italia siamo molto soddisfatti”, ha detto al Corriere della Sera riferendosi al Superbonus. Eppure Antonio Tajani non ha ottenuto praticamente nulla di quanto richiesto: niente proroga del 110 per cento, niente Sal straordinario, solo la garanzia che chi non riesce a finire i lavori non dovrà restituire i soldi. Non è la prima volta che il leader di Forza Italia esulta per una sconfitta. Il 7 agosto, dopo il Cdm che aveva approvato la tassa sugli extraprofitti delle banche, era soddisfatto: “Da mesi diciamo che la Bce sbaglia ad alzare i tassi di interesse e questa è l’inevitabile conseguenza”, disse sempre al Corriere, precisando che non si trattava di una misura contro le banche ma “a protezione delle famiglie”. Pochi giorni dopo qualcuno, probabilmente Marina Berlusconi, gli ha spiegato perché FI doveva essere contro e Tajani iniziò a criticare la tassa perché “non era stata discussa prima”.
Si era entusiasmato per qualcosa che non aveva letto né capito. Probabilmente accadrà lo stesso con la norma sul Superbonus, dopo che qualcuno avrà spiegato ai vertici di FI in cosa consiste. Anche se difficilmente andrà a finire come sulla tassa sugli extraprofitti, poi di fatto cancellata e trasformata in un accantonamento. Perché la modifica della tassa sugli extraprofitti è avvenuta per il pressing delle banche e per la volontà del ministro dell’Economia Giorgetti, che si era reso conto dell’impatto negativo sui mercati. Nel caso del Superbonus, lo scenario è opposto: la diga di Giorgetti ha retto e la reazione dei mercati sarebbe negativa se il governo tornasse sui suoi passi. Tajani ha rivendicato il merito della revisione della tassa sulle banche, ma il suo compito in Cdm era quello di impedire che una cosa del genere accadesse. In sostanza, non è stato determinante né nell’evitare l’approvazione della tassa né nella sua soppressione.
È questa ininfluenza la cifra di Forza Italia nel governo Meloni, dovuta da un lato all’incapacità di tagliare traguardi raggiungibili e dall’altro alla scelta di obiettivi impossibili. Alla prima categoria va ascritta la bocciatura in Parlamento del Mes. Un’azione efficace di FI avrebbe fatto bene al partito, che per una volta si sarebbe mostrato decisivo, e anche al governo, che non si sarebbe autoisolato in Europa. Invece Tajani ha rinunciato a giocare la partita, per evitare uno scontro nella maggioranza. E così non solo il mondo ha assistito all’imbarazzante scena del partito del ministro degli Esteri che si astiene sulla ratifica di un trattato internazionale, ma si è finalmente svelata in Europa l’illusione che Tajani sia l’esponente del Ppe capace di incidere sul governo.
Alla categoria degli obiettivi impossibili appartengono tutte le cause perse scelte da FI in un anno di governo: la proroga della maggior tutela, pretesa dal ministro Pichetto Fratin in contrasto con il Pnrr (che è poi diventata una battaglia del Pd di Elly Schlein); l’aumento delle pensioni minime; la proroga del Superbonus; la difesa dei balneari da parte di Gasparri, in contrasto con la Bolkestein. Tutte richieste che sono o incompatibili con i vincoli di bilancio oppure con il diritto europeo e che mettono in difficoltà la stessa Giorgia Meloni. La premier, preoccupata da un possibile crollo di FI alle europee che avrebbe ripercussioni sul governo, vorrebbe tanto accontentare Tajani ma non può, se le richieste sono queste.
Quello che una volta voleva essere il “partito liberale di massa” si presenta ora alle europee rattrappito, senza idee, come il partito della spesa pubblica (dal Superbonus alle pensioni) e vagamente antieuropeista (dai balneari alla maggior tutela, passando per gli attacchi alla Bce e l’astensione sul Mes). Un’offerta poco allettante per l’elettorato liberale, moderato ed europeista che dovrebbe rappresentare e che rischia di non superare la soglia del 4 per cento. Ieri ha lasciato il partito Aldo Patriciello, storico eurodeputato di FI, che alle scorse europee ha preso 83 mila preferenze, circa 15 mila in più di Tajani. Meglio di lui solo Silvio Berlusconi, che non c’è più.