Gesù, figlio di Maria vergine, nasce a Betlemme al riparo di una grotta. La cometa vi fa sosta e il prodigio chiama alla mangiatoia che gli fa da culla i Magi di Zoroastro venuti dalla Persia e i pastori in transito che se ne stanno tutti intorno e tutti sbalorditi dell’infinitamente piccolo che si invera nell’infinitamente eterno della parola il cui fiato è un vagito.
Tutti i profeti sono stati pastori. Belano le greggi, infatti, muggiscono le mandrie, l’afrore della notte s’impasta nello stallatico: “Lo spirito del giusto si nutre di biada” – sentenzia Mohammed Iqbal, poeta indiano – ma le leggi del tempo additano i pastori tra gli indegni.
Gli incamminati verso i pascoli faticano anche il sabato, sono in contatto con le bestie, dovrebbero pagare un conto salato ai sacerdoti per essere ammessi alle purificazioni e così entrare nel tempio e accostarsi a Dio. La Natività, invece, sfascia la legge e chiama proprio loro, i pecorai e i mandriani.
Chi, come il pastore, è trattato indegnamente dalla sua stessa gente, non può che imparare la pazienza. Incorpora in sé un tratto divino. Padre Giulio Albanese, missionario, me l’ha ben spiegato questo concetto e di certo Il Primo Natale, il film di Ficarra e Picone prossimamente nei cinema, va incontro al destino degli ultimi visto che ogni Christmas Carol fino a oggi è stato fatto coi Babbo Natale e mai, come hanno dichiarato i nostri beniamini, “dal punto di vista del Bambino”.
Francesco d’Assisi inventa il presepe proprio per un impulso bambino. Per contemplare l’Eterno nella fugacità della cartapesta, della povera creta, delle lucine e dei fiocchi di cotone a neve, giusto a immaginare freddo e gelo in Palestina: “È sempre alla sommità del cielo, la stella”, scrive Francesco D’Arelli, autore de Vie di terra, Mongoli e missionari francescani. E quel vagito, quella voce, segna col Poverello il confine estremo: “Un uomo oltre il tempo, dedito alla contemplazione o visione del bello, animato” – si legge in D’Arelli – “da un impulso volto al sublime o a un altro uomo, rinnovato, aperto all’alterità, povero perché ricco di beni immateriali, quelli che non dividono e non contrappongono”.
L’innocenza – la disposizione prima dello stupore – si nutre di capovolgimenti. Siano essi di senso, che di necessità o peregrinatio che sia. A un certo punto del suo Happy Next, Simone Cristicchi, nel monologo finale dello spettacolo (oggi in scena al Superga di Nichelino, domani al Teatro dei Servi di Massa), racconta di quando col terremoto lui corre a L’Aquila. L’artista vi arriva e offre, alla gente ricoverata nella tendopoli della Protezione civile, un po’ della sua musica e qualcuna delle sue parole. Fa il lavoro suo di scavalcamontagne e lì, in mezzo all’infelicità – travolti dalle macerie, dai lutti, dallo spavento – in mezzo alla folla Cristicchi trova dei felici: uomini e donne, giovani e vecchi, tutti allegrissimi, proprio contenti e chiassosi di gioia. Cristicchi s’incuriosisce e scopre l’inverarsi dell’infinitamente. Erano i ricoverati del Centro d’igiene mentale sfollati e perciò – per necessità, senso e peregrinatio – costretti a stare insieme a tutti gli altri e dunque felicissimi nell’infelicità del sisma. E quindi testimoni negli occhi, nell’ascolto e nel cuore di un impulso, un’epica amorevole, un permanere della poesia dove la stella è sommità e il cielo si riavvolge nel “noi”. Tutto di sbalordita bambina innocenza.