Angeli e diavoli si scambiano posto. Con una velocità impressionante. Come accade in Sicilia, dove la grande commedia dell’arte della vita pubblica può riservare repentini cambi di parte sul palco. Succede in questi giorni dopo le notizie giunte dall’indagine di Caltanissetta che ruota attorno ad Antonello Montante. Già cavaliere dell’antimafia, il big confindustriale era al centro di una fitta e ampia rete di relazioni. Il che in sé sarebbe pure lapalissiano quando si ricoprono tutti gli incarichi di peso che Montante ricopriva.
E il tutto mentre negli anni gli venivano apposti sulla fronte timbri di affidabilità e credibilità da mezza Repubblica italiana, dai ministri che lo nominavano a cariche prestigiose, come quella nell’Agenzia dei beni confiscati, ai magistrati di vaglia che ne lodavano pubblicamente l’impegno antiracket. Persino un Comitato di sicurezza nazionale si organizzò a Caltanissetta, e non era mai successo, portando nell’ombelico della Sicilia i vertici massimi degli apparati di sicurezza. Ce n’era insomma di carne al fuoco per spingere il galantuomo di turno a sentirsi tranquillo nel relazionarsi con l’imprenditore nisseno. A cui, secondo i suoi appunti, in tanti si rivolgevano per le più svariate richieste.
Eppure, in una sfera più ristretta di quella grande cerchia di relazioni, si celava l’inganno secondo gli inquirenti, che come Colombo partirono per le Indie e trovarono l’America, nella fattispecie cercarono il reato di mafia – senza trovarlo – e trovarono il ‘sistema’.
Un sistema, ipotizzano i magistrati, fatto di ricatti, dossieraggi, mazzette e pressioni su una politica debolissima.
Tutta roba che andrà provata, certo, ma che già solo sulla base degli indizi raccolti suscita inquietudine e sconcerto, seppur con tutta la prudenza dovuta. Tanto da rovesciare in un sol attimo le parti in commedia degli angeli e dei diavoli, dei buoni e dei cattivi, per cui in un amen quelli che contro l’antimafia e la “legalità” celebrata nei proclami confindustriali parlavano male, chi prima chi dopo, assurgono da reietti a eroi; mentre quelli che all’antimafia e alla dichiarata legalità avevano dato credito finiscono nel chiacchiericcio in un confuso calderone di ‘vicinanza’ a questa sorta di Spectre in salsa nissena.
Succede, e in Sicilia succede più facilmente che altrove, visto che nel trappolone della frequentazione scomoda ormai non si casca più brigando o anche solo strusciandosi con il personaggio in odor di mafia, ma pure stando vicino ai soggetti con patenti d’antimafiosità e affidabilità emesse ai più alti livelli dello Stato. Proprio come a qualcuno accadde a seguito della recente inchiesta su Silvana Saguto e altri.
Nel caso dell’inchiesta su Montante, poi, il cambio d’abito si scena da angelo a diavolo in qualche caso addirittura contempla un terzo momento di metamorfosi, col viaggio di ritorno nelle sfere angeliche per quanti, stabilmente inseriti per anni nel sistema di potere confindustriale, una volta finito il medesimo nella tormenta hanno sposato l’exit strategy della denuncia, utile alle indagini seppur un pelino tardiva come non hanno potuto fare a meno di osservare gli inquirenti, riguadagnando così le ali: et voilà, da angelo a diavolo ad angelo nello stesso giro e senza nemmeno passare dal via. Un po’ il percorso inverso a quello che toccò a Massimo Ciancimino, da rampollo del simbolo della politica che va a braccetto con la mafia a “quasi-icona dell’antimafia” di rito ingroiano, benedetto dai pm e abbracciato in pubblico dal fratello di Paolo Borsellino, salvo poi finire condannato per calunnia nel processone sulla trattativa. Avanti e indietro, il balletto continua. È la Sicilia, bellezza.