C’era una volta un cinema all’aperto, un’arena, in estate. Davano Goldfinger.
Papà, non ho capito. Chi è che fa gol?
Nessuno.
E andavamo insieme, mano nella mano.
Erano gli anni settanta quasi ottanta.
Tutti noi bambini avevamo un papà reale e più di uno immaginario.
Io amavo tutti.
Era bello avere un padre professore, però pure partecipare a una scazzottata con Bud Spencer non era male.
Io li amavo tutti, sì.
Mazinga, Goldrake.
E un po’ anche il tenente Kojak di cui avevo la macchinina con lui che sparava fuori dal finestrino: il mio giocattolo-amuleto.
L’altro era San Goldrake in miniatura.
Vai, c’è sul radar la flotta di Vega…
Insomma, quella sera mi sentivo in odore di adozione; ancora una volta un papà da immaginare. Un altro.
Perché, all’epoca, erano i sogni che adottavano gli esseri umani.
Li abbracciavano da piccoli e non li lasciavano più.
Buio, la luna lassù, il caldo e il cornetto Algida che un po’ si squagliava.
L’oscurità aveva un odore di quasi immortalità.
Inizio e fine del film, io in trance.
Tornammo piano verso casa senza parlare, tutti e due bambini, con gli occhi pieni di sogni.
Anche James Bond era diventato mio padre.
Oggi ripenso spesso a quell’estate e a quel cinema all’aperto.
Mi mancano tutti i miei papà immaginari e provo una fitta al cuore quando qualcuno se ne va davvero, perché vuol dire che i sogni muoiono, come le stelle cadenti, lasciando la luce che non dimenticherai.
Ma di tutti i padri che ho avuto mi manca di più l’uomo che mi tenne per mano lungo molte sere di lune e cornetti Algida.
Si chiamava papà. (Articolo tratto da Facebook)