E’ fallito pure il processo alla Dc

Calogero Pumilia, ex parlamentare della Democrazia Cristiana, è stato sottosegretario e sindaco di Caltabellotta

Calogero Mannino è stato assolto. La conclusione delle vicende processuali che dal ‘91 hanno riguardato l’ex Ministro – sancita dal pronunciamento della Suprema Corte di Cassazione – non spiega, però, il trattamento che gli è stato riservato. Tanto meno giustifica, o fornisce un alibi, alle origini di un percorso così articolato e doloroso. A ricostruire gli anni d’oro di Mannino, sprofondato lentamente nella polvere, è l’ex compagno di partito Calogero Pumilia, parlamentare nazionale della Dc per cinque legislature. Più volte sottosegretario di Stato. Che adesso si diletta nella scrittura e nell’analisi storica da dietro le quinte. Il suo ultimo libro si intitola “La caduta – Eventi e protagonisti in Sicilia 1972-1994” (Rubbettino Editore): “Mannino, negli anni ’80 e nei primi anni ’90 – spiega Pumilia – ha rivestito ruoli importanti in Sicilia e nella Dc. Come lui solo Giulio Andreotti e l’ex presidente della Regione, Rino Nicolosi. A quell’epoca, però, si pose il problema di un ricambio della classe dirigente e di una propensione a farlo anche attraverso la via giudiziaria”.

E quindi, cosa accadde?

“Che da un lato i partiti si mostrarono incapaci di guidare il rinnovamento di questi strumenti di presenza e mediazione politica; dall’altro stava montando l’equazione “storia della Dc uguale storia della mafia”. Si tratta di una lettura settaria e parziale, fondata però su una realtà che nessuno ha mai ignorato”.

Cioè che ci fossero dei punti di contatto fra l’una e l’altra.

“Era sotto gli occhi di tutti. La mafia era stata sempre considerata, almeno fino alla metà degli anni ’80, una delle componenti del sistema sociale, economico e politico della Sicilia, con la quale fare i conti e talvolta rapportarsi. Lo hanno fatto in tanti, compresa la Chiesa e parte della magistratura. Quando lo fa la politica, però, compie un gesto di maggiore negatività perché apre spazi impensabili per la criminalità organizzata. Specialmente quando la criminalità organizzata diventa talmente potente – con la speculazione edilizia e, poi, con il traffico di droga – da immaginare di non essere più subalterna, ma addirittura predominante. E comunque, la Dc non è stata la succursale della mafia. Ha portato avanti una politica, che è stata spesso sporcata e condizionata dalla presenza mafiosa”.

Quando e perché comincia la persecuzione nei confronti di Mannino, secondo lei?

“L’azione di Falcone e Borsellino ebbe come obiettivo quello di portare a processo ed eliminare il gotha della mafia. Chi arrivò dopo di loro, invece, pensò che quella era un’azione utile ma parziale, che bisognasse alzare il tiro al livello della politica, immaginando che fra la politica e la mafia ci fosse un rapporto organico talmente intricato da non poter distinguere fra l’uno e l’altro”.

Quindi?

“A Milano, con Tangentopoli, si decise di processare la Dc e l’intero sistema dei partiti. A Palermo, questo processo fu spostato su un terreno ancora più insidioso: oltre ai soldi c’era il sangue dei morti ammazzati. Quindi la responsabilità era di gran lunga maggiore. La tenaglia si chiudeva sul sistema dei partiti e sulla Prima Repubblica: fu l’azione finale di un processo storico che, inesorabilmente, aveva evidenziato una crisi pressoché irrecuperabile delle forze politiche di quell’epoca”.

Il suo ultimo libro si intitola “La caduta” e racconta gli anni dal 1972 al 1994. Qual è il filo conduttore?

“Il racconto parte dalle speranze che si aprirono nella prima metà degli anni ’70, con l’incontro fra la Dc e il Pc, coi due protagonisti di allora (Rosario Nicoletti, segretario regionale della Dc, e Achille Occhetto, segretario regionale del Pc), per arrivare, gradualmente, alla solidarietà autonomistica con il governo Mattarella. Cioè il periodo in cui si iniziò a pensare che la Sicilia potesse avere le carte in regola, un protagonismo politico e una classe dirigente – e l’aveva – all’altezza del compito”.

Quella convinzione naufragò in fretta.

“L’assassinio di Piersanti Mattarella segna l’inizio di una stagione tragica, che tuttavia è caratterizzata da tentativi generosi di rinnovamento. Portati avanti da Sergio Mattarella, Luca Orlando, Nicolosi, Cocilovo, D’Antoni, Riggio… cioè la classe dirigente che con De Mita tentò di rinnovare il partito, sostenuta anche da padre Sorge. Quando si capisce, però, che questi tentativi non avevano la possibilità di essere portati compiutamente avanti, subentra la delusione finale. La vita politica siciliana, a quel punto, si intreccia con la crisi di tutto il sistema nazionale. Mentre la mafia, che nel frattempo era diventata stragista, comincia a regolare i conti con quelli che riteneva suoi “traditori”, cioè Salvo Lima, e i suoi nemici giurati, Falcone e Borsellino”.

Qual è stato il più grande fallimento della politica siciliana?

“La incapacità totale di realizzare un minimo fronte comune. Basti pensare agli attacchi potentissimi cui venne sottoposto per anni Falcone da parte di ambienti della sinistra siciliana e della magistratura. Fu accusato, addirittura, di essersi organizzato l’attentato all’Addaura, di essere divenuto il servo del governo Andreotti quando Martelli era Ministro della Giustizia”.

Lo spirito della Dc sopravvive ancora? L’ex presidente della Regione, Totò Cuffaro, sta provando a ricrearla.

“Ho il massimo rispetto per Totò Cuffaro e apprezzo il suo tentativo, ma ritengo che quella esperienza sia conclusa. E’ stata il frutto di una storia lunghissima: dal 1919, col Partito Popolare di Sturzo, fino al 1943-44, quando delle condizioni internazionali totalmente diverse rispetto a oggi, determinarono una profonda evaporazione culturale. Non è possibile tentare di prendere i mattoni, numerarli e rifare la casa della Democrazia Cristiana. La ritengo un’operazione senza sbocco. Inoltre, la Dc non può sorgere fra Palermo e Agrigento. Qualsiasi partito ha bisogno di una dimensione nazionale. Malgrado io veda oggi un grande desiderio di centro – che peraltro non mi appartiene – il rischio è che, al di là delle ottime intenzioni, si possa finire per realizzare una formazione medio-piccola, e comunque subalterna rispetto alle forze politiche esistenti, in particolare quelle della destra”.

Come sta reagendo il governo nazionale di fronte al dramma della pandemia. Ha una caratura tale da condurci fuori da questa crisi?

“No. Chi la pretende, esagera. In giro per il mondo i governi arrancano appresso a un evento così improvviso e traumatico, che mette tutti di fronte a situazioni totalmente nuove. In Italia c’è questo gioco perverso di un sistema politico che, in particolare sulla sanità, è frazionato e frammentato, e che viene utilizzato per un regolamento interno di conti. C’è una mancanza totale di responsabilità reciproche, come testimonia il giochino sulle regole di Natale e Capodanno. Una partita giocata sul terreno balordo delle piccole convenienze, prescindendo dalle indicazioni della scienza e dei rischi reali”.

E il governo regionale?

“Arranca come quello delle altre regioni, fra annunci di un tipo e scelte del tipo opposto. Nessuno nel mondo – ad eccezione, forse, di Vietnam e Singapore – hanno avuto la capacità di fronteggiare un fenomeno così grave e imprevisto”.

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