Uno ha fatto le valigie e si è dimesso per la seconda volta in pochi mesi: “Mi riprendo la mia libertà” (dalla politica, intendeva). L’altro ha piazzato le tende e si è trasformato in una zavorra, finché dall’assessorato della Salute non è partita la procedura di decadenza, che passa da due mesi di sospensione. Questa è la storia di due manager del sottogoverno siciliano: Vito Riggio e Ferdinando Croce.
Generazioni diverse, percezione assai diversa della cosa pubblica e del legame coi partiti. Riggio, scuola democristiana, a un certo punto se n’è infischiato dei padrini: ha capito di non poter più fare quello per cui era stato nominato Amministratore delegato di Gesap, e ha girato i tacchi. Sempre con una discreta dose di garbo istituzionale. L’altro no, non ha mai chiesto scusa. Neppure ai malati di tumore che per mesi hanno atteso invano l’esito di un referto istologico. Una ventina, a causa dell’accumularsi dei ritardi, si sono aggravati in modo serissimo: ma il manager s’è fatto scudo dei padrini, anzi dei patrioti, e proverà a resistere a suon di carte bollate.
Non c’è niente che accomuni Vito Riggio e Ferdinando Croce, neppure l’attaccamento alla poltrona. Una regola non scritta, ormai, vuole che chi riceva un incarico, senza passare da un concorso (ma da una lottizzazione), si leghi a quel posto per sempre. Non è stato così per l’Ad di Gesap, la società che gestisce l’aeroporto “Falcone-Borsellino” di Palermo: una prima volta s’era defilato, rimanendo soltanto nel Consiglio d’amministrazione, perché non riusciva ad andare in fondo al processo di privatizzazione per cui era stato voluto da Schifani (che infatti è tornato a pregarlo). La seconda, invece, per aver ricevuto pubblicamente la sfiducia del governatore rispetto a un’idea – contraria all’abolizione dell’addizionale comunale negli aeroporti minori – non concordata in sede istituzionale. Ha pagato per un’intervista temeraria, ma non se n’è fatto un cruccio.
Ha rimesso a disposizione la poltrona. Lui d’altronde ne ha avuto tante: al ministero della Protezione civile (da sottosegretario), all’Ente nazionale per l’aviazione civile (Enac), in parlamento. Potrebbe essersi stufato o più semplicemente ha fatto valere il peso delle idee, le proprie, che non sono mai state in vendita. Il “democristiano felpato”, come l’ha definito Repubblica in un ritratto, non ha mai fatto mistero delle proprie convinzioni, che per un tratto di strada sembravano coincidere con quelle del presidente della Regione. A un certo punto le cose sono cambiate e Riggio ne ha preso atto: “Non capisco perché dopo due milioni di passeggeri in più e dopo una richiesta di ritorno che qualche mese fa mi è stata fatta personalmente da lui pubblicamente, (Schifani) ha cambiato opinione. Del tutto legittimo, ma è legittimo che io allora riprenda la mia libertà. Adesso sono pensionato, posso benissimo farlo. Avevo voglia di aiutare Palermo a trovare un socio industriale. Pare che non lo si voglia o non si possa e quindi trovino qualcun altro”. “Mi ritiro in buon ordine – ha concluso – essendo disponibile sempre a dare una mano ma ovviamente a condizioni migliori di quelle che ho trovato”.
Un’altra stazza rispetto a Croce. Riggio era libero dai legacci di partito: non c’era qualcuno cui appoggiarsi per ricevere un incarico che all’aeroporto faceva certamente più comodo che non a lui; e non c’erano gonnelle cui aggrapparsi nel momento in cui è precipitato tutto. Gesap è una macchina di valore, un asset strategico e di potere che in vista della privatizzazione dello scalo farà gola a molti.
L’Asp di Trapani, con tutto il rispetto, è solo un’Azienda sanitaria, di cui Croce era il rappresentante legale pro-tempore. Al primo incarico di rilievo. Ma l’ambizione non può e non esula rispetto al ruolo di responsabilità nei confronti dei pazienti, tutti meritevoli di cure e attenzione. Il servizio sanitario pubblico non può piegarsi ai desiderata di una parte politica, che fa di tutto per difendere le prestazioni di un manager obiettivamente poco efficace (per non dire scarso). Quando la squadra va male l’allenatore salta; così come un Direttore generale, prestato alle sue mansioni dalla benevolenza di un partito compiacente, avrebbe dovuto rassegnare le dimissioni rispetto ai “gravi disservizi legati ai ritardi nell’erogazione delle prestazioni di anatomia patologica”.
E’ questo che la Regione – il datore di lavoro, nella circostanza – ha contestato a Croce. Ma lui s’è rifugiato dietro il parafulmine dei Razza, dei Musumeci, dei Sbardella, per ricevere la protezione che non meritava. Non si è mai scusato, ma ha solo difeso se stesso da accuse tanto specifiche quanto impietose. Lo stesso commissario di FdI, atteso a un’inversione di marcia, non ha pronunciato una sola parola a favore dei pazienti privati del diritto alle cure. Si è accodato a un comodo silenzio che ha assunto, coi giorni, le sembianze della vergogna. Un silenzio figlio della supponenza, dell’arroganza, della spocchia dei vincitori. Che non ha reso giustizia a Giorgia Meloni e alla destra, che ha palesato i limiti di una classe politica che sa cosa voglia dire “mettersi al servizio”. Ma che lotta soltanto per preservare la specie.
“La salute non è un favore ma un diritto sancito dalla Costituzione – ha detto ieri il capogruppo di Italia Viva alla Camera, Davide Faraone, durante una manifestazione a Mazara -: dobbiamo avere la forza e il coraggio di pretendere che venga rispettato”. Per farlo servirebbero uomini e donne in grado di assumersi le proprie responsabilità, che siano in grado di imporre la propria competenza, che preferiscano una parola di verità rispetto alle difese d’ufficio. Riggio e Croce hanno dimostrato cosa si può fare con il sottogoverno, cosa è più utile per se stessi e per gli altri. Quale dei due atteggiamenti convenga alla politica per apparire seria e affidabile è facile da capire.