Alla fine sembra quasi che gli unici bastonati della convention di Forza Italia a Santa Flavia siano i cugini patrioti: a Pogliese e Cannella non sono piaciute le “bulimie oratorie” del coordinatore del partito, Marcello Caruso, che in pratica ha accusato Musumeci di non aver mosso un dito per occuparsi di siccità. Lo definiscono “ventriloquo” del governatore non a caso. Per il resto l’appuntamento del Domina Zagarella è andato a gonfie vele: ci si è scambiati complimenti reciproci, qualche lacrima (ripensando a Berlusconi) e soprattutto una promessa, anche se ancora abbozzata: la ricandidatura di Renato Schifani alla presidenza della Regione. Nel 2027.
C’era talmente poco di cui vantarsi – la siccità è un problemone, i termovalorizzatori sono una prospettiva ancora troppo distante – che l’obiettivo di Tajani & Co. è stato quello di blindare il presidente della Regione per il futuro. Che però non è domani ma fra tre anni. L’unico che ha subodorato la beffa, forse, è lo stesso Schifani: che da un lato pretendeva le immediate dichiarazioni di stima del suo partito, dall’altro se n’è quasi lavato le mani (“Penso a lavorare”). Gli altri si sono messi in coda per l’osanna, pur sapendo che fra tre anni sarà un altro mondo, che il presidente sarà più stanco e i delfini, come Edy Tamajo, già scalpitano. Eppure: “Da qui al 2027 c’è ancora tempo, ma Schifani sarà ricandidato perché sta lavorando bene”, ha detto Tajani. Con l’ingenuità di chi non conosce granché i risultati di questo governo: zero riforme.
E’ il gioco delle parti a imporre cosa dire. Era pur sempre la festa di Forza Italia, “un partito non solo in crescita, ma anche unito e non lacerato come disegnato da certi media” (cit. Re Renato). Eppure Marco Falcone si è subito detto d’accordo con Tajani sul tema della prossima candidatura, “mi riferisco in particolare al fatto che è ancora molto presto per parlarne”. Mentre Tamajo, che rivendica il merito di aver riempito la sala, fa sapere che il candidato sarà lui, Schifani. Solo qualche settimana fa un messaggio vocale dell’assessore alle Attività produttive, finito sui telefoni delle persone sbagliate, aveva scatenato l’ira del governatore (prima del disgelo ferragostano a Mondello). Diceva di essere lui il successore naturale.
Insomma il Domina Zagarella diventa il luogo del cuore, ma si gioca a carte rigorosamente coperte. E nessuno fa niente per apparire diverso da com’è in realtà. Mentre di fronte ai giornalisti Schifani parla di partito unito, in aula, durante il panel che coinvolge Falcone e Tommaso Calderone, due dell’ala critica del partito, la sedia del presidente è vuota. E anche per Lagalla, passato per un saluto, non c’è scampo. Nell’intervento conclusivo di domenica, Schifani ha evidenziato che il sindaco di Palermo è un amico serio e concreto, però “deve entrare nella logica che se si fa parte di una squadra, se una parte della famiglia ti chiede “incontriamoci”, ci si riunisce, ci si parla”. Non ha fatto lo stesso sforzo nel commissariare la sua giunta a Palermo all’indomani degli attacchi di Faraone, capogruppo di Italia Viva alla Camera. Arrivando a minacciare che se i renziani – o presunti tali – non sarebbero stati messi alla porta, ad andarsene sarebbe stata Forza Italia, aprendo una crisi al comune.
In quel caso il dialogo stava a zero. Nonostante le famiglie più o meno larghe. Schifani ha anche rimarcato la differenza tra Lagalla e Lombardo, “che ha chiesto un incontro di maggioranza per parlare tra di noi (…) perché in una casa si discute”, provando così a fare un buco nella federazione, appena nata, fra il leader del Mpa e il sindaco di Palermo (con Micciché terzo incomodo). Entrambi i movimenti ruotano nell’orbita di Forza Italia, ma l’asse che potrebbe mettere a repentaglio la sua tenuta va lentamente e inesorabilmente sfibrata. A Santa Flavia s’è visto. “Schifani è il sole, ma i pianeti sono tanti e bisogna scongiurare le tempeste solari”, ha detto Giorgio Mulè, vice presidente a Montecitorio. Leggere fra le righe…
Schifani è sempre rimasto uguale a se stesso, e non potendo esibire i risultati dell’azione di governo (in pratica non ce ne sono), ha ripiegato sull’ennesimo annuncio: un contributo da trenta milioni di euro per le famiglie con l’Isee inferiore ai 5 mila euro l’anno. Una sorta di reddito di povertà, da inserire nelle prossime variazioni di bilancio, che non ha nulla a che vedere col reddito di cittadinanza che alcuni del suo partito – vedi l’ex Pd Luisa Lantieri – aveva chiesto di riconsiderare (per questo motivo era stata “isolata”). Ma i trenta milioni di Schifani sono briciole rispetto ai due miliardi promessi da Tamajo per le imprese siciliane: “Mai prima d’ora le aziende dell’Isola avevano ricevuto un simile supporto. Con questo stanziamento puntiamo a costruire un tessuto economico più solido, moderno e dinamico”. Ma è vero anche che il timbro di Tamajo su queste operazioni già ribattezzate come “clientelismo di massa” (tutto legale per carità), siano un esempio emblematico della sua potenza di fuoco, e di come un consenso così ampio non possa rimanere stritolato nella prospettiva di concedere un bis a Schifani.
E nel frattempo che si fa? Nulla. Anche il tentativo di reintrodurre il voto diretto nelle ex province (anche Tajani si è detto sostanzialmente a favore) è un diversivo per perdere tempo: ci sarà solo un emendamento, da legare alla prima legge utile, per rinviare l’appuntamento con le elezioni di secondo livello già convocate per il 15 dicembre, in modo da garantire la prosecuzione dei commissariamenti. E poi si aprirà la lunga stagione finanziaria, che affogherà nelle festività natalizie. Nel partito si continuerà a discutere di nomine e sottogoverno, come s’è sempre fatto. Anche se la prima beffa per i ‘murati’ – nessuno li ha sentiti a Santa Flavia, solo il capogruppo Pellegrino ha avuto l’onore di un panel – potrebbe arrivare sulla nomina dell’ente Porto di Palermo, dove al posto di Pasqualino Monti si fa il nome dell’ex grillino Cancelleri. Un azzurro della prima ora.